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Il San Giusto del Chianti Classico

Forse questo post non avrebbe dovuto essere un post. Da non nativo digitale mi pare che l’argomento, la prova provata e la riflessione stessa avrebbero potuto regalare un bel po’ di inchiostro a una qualche carta.

Perché da scrivere ci sarebbe stato parecchio, anche per uno notoriamente stitico di parole come il sottoscritto, che ama andare in sottrazione, all’essenza, con tanti non detti e continui rimandi.
Tant’è, non avendo un supporto capace di accogliere un lungo sproloquio, mi limiterò a restituire, come al solito, delle sensazioni, o meglio delle vibrazioni su una delle cantine che più amo in Chianti Classico: San Giusto a Rentennano*.
L’occasione per tornarci sopra viene da un invito, tante bottiglie, un bel ristorante e una tavola di amici. Di quelli convinti che nell’amaro benedettino non sta il segreto della felicità, che anche chi non legge Freud può vivere cent’anni e che esistono ancora gli sfruttati, malpagati e frustrati. E che si, forse, si potrebbe parlare di vino in un altro modo.
L’invito arriva da un enotecario d’altri tempi. Una figura antica, almeno in questa forma, che mette addirittura la professionalità, l’esperienza, la passione e, udite udite, l’amore per il proprio lavoro al primo posto. Un tizio evidentemente sciroccato, incapace di fiutare dove va il mondo, che conosce personalmente ogni vino che ha in cantina, ne segue i percorsi, visita le aziende con cui lavora e si muove con disinvoltura tra le pieghe della materia. Un extraterrestre con la bussola rotta, evidentemente, che risponde al nome di Ezio Bani*, uguale uguale a quello del suo negozio di Umbertide.
Le bottiglie sono quelle di San Giusto, ovviamente, in una specie di piccola retrospettiva che abbraccia quasi tutte le etichette della casa: dal Chianti Classico alla Riserva Le Baroncole, dal Percarlo a La Ricolma.

Lenzuolata di note e punteggi in arrivo? Manco per sogno. Semmai la voglia di dilatare quelle sensazioni attraverso lo scritto e la memoria. Sedimentata, finalmente, e capace di elaborare le informazioni assorbite.
Che quelli dei Martini di Cigala siano grandi vini è opinione più o meno condivisa. Che abbiano bisogno di tempo, forse più di quelli provenienti da altre realtà, stili e terroir per esprimesi al 100%, forse è questione che merita la sottolineatura. Perché così è, almeno per me.
I classici vini che possono anche impressionare, magari anche ingolosire, da giovani, ma che devi aspettare se cerchi anche le sfumature, i dettagli e le emozioni. Forse per la maturità del frutto, dovuta al calore della sottozona, che li rende quantomeno rigogliosi in gioventù. Magari per un’idea stlistica e per quell’inezia tostata che l’affinamento in legno regala, a volte con un surplus di generosità.
Quisquiglie, appunto, o addirittura alleati se la storia si legge nel lungo periodo.
Non mi spiegherei altrimenti il clamoroso Percarlo 1998 (*****) e il profondissimo 2004 (****), l’umorale ’90 (****), che si stropiccia gli occhi ed esce alla distanza, il cazzuto ’99 (***). Per non dire dell’incredibile, strepitoso, sorprendente Chianti Classico ’99 (*****), ammaliante nella trama speziata, nei ricordi coloniali e negli accenni di cuoio. Annata magica, evidentemente, perché anche La Ricolma non scherza in questo millesimo (****), così come non lo fa col sontuoso ’97 (****). Ma è la media a impressionare perchè nessun vino assaggiato è sembrato meno che ottimo.
E visto che ci sono, forse contraddicendomi sulla necessità di aspettare a giudicare questi rossi, voglio socializzare il mio entusiasmo per il Chianti Classico 2012 assaggiato alla Collection della Leopolda. Un esemplare grandioso. Da subito e, credo, per lunghi anni a venire.

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