Quella che segue è la storia di copertina dell’Almanacco Chianti Classico 2024, quarto numero di Tipicamente Magazine e seconda edizione della monografia annuale dedicata alle terre, ai vini e alle aziende del Gallo Nero.
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Una grande storia italiana
Gli interventi si succedono placidamente, uno dopo l’altro, fino a quello che raggela il Salone dei Cinquecento in Palazzo Vecchio a Firenze, costringendo gli astanti ad abbassare lo sguardo. «Saluto i produttori del Chianti…». E poi ancora: «Oggi sono tanti che hanno copiato l’esperienza del Chianti…». Facile capire le ragioni di tanto imbarazzo. Le parole sono quelle di Francesco Lollobrigida – Ministro del MASAF (Ministero dell’Agricoltura, della Sovranità Alimentare e delle Foreste) – pronunciate durante il convegno Back to the future dello scorso 14 maggio, celebrazione dei cento anni compiuti dalla nascita del Consorzio per la difesa del Vino Tipico del Chianti e della sua Marca di Origine, denominato dal 1968 Consorzio Vino Chianti Classico. Capito, signor Ministro? Chianti CLASSICO!
Eccolo, per l’ennesima volta, l’elefante nella stanza. O meglio, il Gallo Nero. Eletto fin da subito dai 33 soci fondatori come icona identificativa del Consorzio, il primo in assoluto nella storia dei vini italiani, ci appare come una specie di Grande Gatsby in salsa toscana. Lo immaginiamo mentre scruta dall’incantevole soffitto dipinto dal Vasari, sorseggiando il suo rosso con un sorriso malinconico, i tanti invitati accorsi con gioia a un altro dei magnifici party che organizza ogni settimana per onorare tutte le ricorrenze della sua secolare storia. Si divertono, sono felici, e pazienza se non tutti i presenti sanno indicare chi sia esattamente il festeggiato.
Sta per chiudersi un 2024 denso di anniversari, a partire da quello in assoluto più importante per la sopravvivenza stessa dell’attuale vino Chianti Classico, nonché della sua identità territoriale. Quella del Consorzio neocentenario è una storia che va ben oltre le questioni strettamente enoiche e si intreccia con i principali accadimenti dell’ultimo secolo, in Italia e non solo. Conflitti, calamità, stravolgimenti politici e socioeconomici, crisi, trionfi, contenziosi legali, cadute, ripartenze, riscatti. E un’evidenza di fondo: brutalizzando al massimo la sintesi, se il Chianti Classico è riuscito in qualche modo a conservare una possibilità di autonomia, prima come Sottozona e poi come denominazione a sé stante, quasi tutto lo si deve – almeno in prima battuta – ai 33 viticoltori e produttori unitisi il 14 maggio 1924 a Radda.
Col senno di poi, fu semplicemente decisiva la loro scelta di mettersi insieme per provare a proteggere quella che era a tutti gli effetti una delle prime DOC ante litteram dell’era moderna, disegnata nel 1716 dall’editto del Granduca di Toscana Cosimo III de’ Medici. Senza dimenticare, ciliegina sulla torta, la clamorosa intuizione che li rese artefici di una delle operazioni di marketing più riuscite di sempre. Forse non del tutto consapevole, eppure tremendamente efficace nelle ricadute in termini di riconoscibilità planetaria e valore aggiunto: l’adozione come simbolo consortile del Gallo Nero, emblema dell’antica Lega del Chianti, che diventa marchio figurativo di un organismo associativo e dei vini da esso tutelati, ma al contempo di un intero comprensorio.
Una questione irrisolvibile
Non la giustifichiamo, signor Ministro, ma Lei è quantomeno in buona compagnia. Naturalmente non è questo lo spazio adatto per ricostruire le tante ragioni che hanno determinato l’atavica confusione tra Chianti e Chianti Classico. A prescindere dal come e dal perché, è ormai un dato di fatto la sostanziale ingestibilità della faccenda, legata prima di tutto alla sovrapposizione tra due nomi che a volte sono usati per indicare la stessa cosa e altre designano cose nettamente distinte. Facciamo ancora fatica a destreggiarci noi, dopo oltre vent’anni nel settore, figuriamoci un normale lettore, consumatore, viaggiatore che non abbia intenzionalmente approfondito l’argomento o sia inciampato in qualche corso di avvicinamento al vino.
Senza l’aiuto di un’anima pia con la voglia e la pazienza di spiegarlo, è impossibile capire da soli, di pura logica e buon senso:
– che esiste un territorio storicamente denominato Chianti, corrispondente (salvo piccoli aggiustamenti) a quello delimitato dal bando mediceo del XVIII secolo;
– che in quello stesso territorio si producono vini e oli a denominazione d’origine certificati dal marchio Chianti Classico;
– che quello stesso territorio compare con menzioni alternative a seconda degli ambiti istituzionali (ad esempio, il Distretto Rurale del Chianti, il Bio-distretto del Chianti e la Fondazione per la Tutela del Territorio del Chianti Classico operano sulla medesima area, mentre la candidatura Unesco è stata ufficialmente presentata per il “Paesaggio del sistema delle ville-fattoria del Chianti Classico”);
– che esistono vini e oli a denominazione d’origine certificati dal marchio Chianti, che non hanno alcun legame geografico con il Chianti storico e vengono infatti prodotti in altre zone della Toscana;
– che questo è uno dei rarissimi casi in cui il termine Classico non designa un “sottoinsieme” di un’area più grande appartenente alla stessa denominazione;
– che produttori ed esperti utilizzano talvolta – erroneamente – la locuzione “Chianti” al posto di “Chianti Classico” per riferirsi ai vini contrassegnati dal Gallo Nero (per consuetudine, pigrizia, necessità di abbreviazione, area di origine sottintesa, eccetera); e potremmo proseguire ancora a lungo.
L’enografia mondiale è piena zeppa di nomi, regole ed eccezioni che sembrano create ad arte per depistarci e farci cadere in trappola. Magari portandoci a scambiare un village e un grand cru con nomi simili in Borgogna, o convincendoci di aver fatto l’affarone preferendo un Bordeaux Supérieur a un Pauillac. Con una differenza fondamentale che rende il pasticciaccio Chianti-Chianti Classico un unicum: un conto è scambiare vini della stessa macroregione, come nei casi ipotizzati, un altro è non riuscire a distinguere bottiglie che provengono da distretti in tutto e per tutto diversi, distinti, separati.
Aspettando il balzo finale?
Terminata la festa, smesso l’abito da gran sera, resta insomma un retrogusto agrodolce. Siamo testimoni di un percorso prodigioso, ma tutt’altro che compiuto e che porta a chiederci cosa manchi per il definitivo salto nell’Olimpo. Non c’è alcun dubbio che l’equivoco del nome (anzi, dei nomi) costituisca il principale limite strutturale, a conti fatti irreversibile e senza alcuna concreta possibilità di soluzione. E però non è l’unico. Nonostante i tanti cambiamenti in corso, ancora oggi solo una piccola parte dei vini più celebri, costosi, iconici, prodotti nel territorio del Chianti Classico, viene proposta attraverso una delle tre tipologie (Annata, Riserva e Gran Selezione) previste dalla DOCG a marchio Gallo Nero. Riuscite ad immaginare un Monfortino di Giacomo Conterno che esce come Langhe Nebbiolo o Piemonte Rosso? E Montalcino sarebbe lo stesso se i Brunello Riserva di Biondi Santi fossero stati commercializzati come IGT Toscana?
La tendenza di lungo periodo è sicuramente quella di un esponenziale rafforzamento dei Chianti Classico a denominazione, tanto nel livello medio quanto nel blasone, nella personalità e nel posizionamento delle punte, a maggior ragione con l’introduzione delle Unità Geografiche Aggiuntive. Proprio qui si manifesta tuttavia un ulteriore corto circuito. Quello che si avvia alla conclusione va in archivio come l’anno in cui sono stati immessi sul mercato i primi vini – esclusivamente della tipologia Gran Selezione – con indicazione della UGA in etichetta. Eppure se n’è parlato poco, anche da parte degli stessi produttori. Quasi fosse una cosa già “vecchia”, masticata e digerita, quando si tratta invece di uno strumento derivante da un iter normativo non ancora effettivo in tutte le componenti (basti pensare alle UGA sotto-comunali “transitorie”, come Montefioralle, Lamole e Vagliagli, i cui nomi non possono essere indicati in etichetta prima del 2027).
I delicati equilibri tra presente e futuro
Gli eventi del centenario evidenziano una volta di più il principale punto di forza del comprensorio, ovvero la capacità di portare avanti una visione collettiva di lungo periodo. La consapevolezza di una storia a suo modo epica che diventa carburante per progetti estremamente attuali negli obiettivi di valorizzazione delle risorse umane e territoriali. Come i temi della sostenibilità ambientale e delle sfide legate ai cambiamenti agro-climatici, che trovano sintesi in un vero e proprio Manifesto programmatico.
Una lungimiranza doppiamente luccicante, se paragonata all’approccio conservativo adottato da altri reputati distretti regionali, non esente comunque da insidie. Quando lo sguardo è proiettato al futuro in maniera così potente, c’è il rischio di sottovalutare alcuni traguardi già raggiunti che hanno bisogno di essere consolidati. Tornando alle UGA, l’impressione è quella di una riforma non ancora metabolizzata, che richiede uno sforzo supplementare per essere pienamente spiegata e compresa. I fraintendimenti sono del resto dietro l’angolo, come emerge dal confronto con diversi professionisti stranieri, specie di cultura anglosassone, abituati a maneggiare le mappature di secondo livello (cru, sottozone, menzioni) attraverso codici radicati in tradizioni assai distanti da quella del Chianti Classico. Giornalisti e operatori che vanno in tilt non appena scoprono ulteriori strati di eterogeneità e complessità palesarsi ad ogni zoom successivo. Condizionati quasi pavlovianamente, lo scriviamo col massimo rispetto, da una malintesa idea di causa-effetto, meccanica, didascalica, che dovrebbe corrispondere tra un’area più ristretta e i vini che vi prendono forma.
È un’operazione impegnativa quanto urgente, quella a cui sono chiamati i produttori del Gallo Nero, individualmente e in gruppo: tocca più che mai a loro accompagnare comunicatori, buyer e consumatori in questa delicata fase di transizione. Aiutandoli a capire, tanto per cominciare, che le UGA non nascono necessariamente con l’obiettivo di indicare un determinato profilo espressivo – tipo San Casciano ha la ciliegia morbida e Radda l’arancia acida. Rendendo invece più chiaro il metodo abbracciato, che per mille ragioni (ambientali, sociali, agricole, aziendali) ha poco da spartire con quello attuato, ad esempio, in Borgogna, in Langa o in Mosel-Saar-Ruwer. Un drone che plana dall’alto in varie direzioni, illuminando le opportunità scaturenti da un’indagine più avanzata, contemporanea e puntuale. Un GPS che faciliti la comprensione di un distretto decisamente grande, nella sua interezza, grazie alla definitiva scoperta della propria dimensione plurale, comunitaria e viticola. Una priorità assoluta per il Chianti Classico, anche alla luce delle problematiche ricordate in apertura.
Così come non può essere demandato ad altri il compito di gestire tutta una serie di scenari connessi ad una eventuale fase due del progetto, che appaiono come sospesi in una sorta di limbo. Ad esempio, che prospettive ci sono per un’evoluzione “verticale” delle UGA, da molti auspicata? Sarà possibile valorizzarle anche attraverso le tipologie “Annata” e Riserva? E poi, quali idee sono sul tavolo, se l’intento dovesse essere quello di armonizzare in senso “orizzontale” una ripartizione territoriale dove convivono al momento Unità Geografiche piuttosto diverse per estensione ed omogeneità geo-viticola, pedoclimatica, stilistica? Questioni che attirano attenzione ed interesse, non solo tra i nerd del vino, suscitando interrogativi a cui è difficile oggi dare una risposta.
Dieci anni di Gran Selezione
In attesa di capire meglio i prossimi passi, l’entrata in vigore delle UGA sta già contribuendo in maniera fondamentale ad arricchire un altro pezzo della cosiddetta Gallo Nero Revolution che in questi mesi celebra un traguardo simbolico. Nel 2024 ricorrono infatti anche i dieci anni trascorsi dall’istituzione della Gran Selezione: una nuova categoria recepita per la prima volta nel 2014 dal disciplinare del Chianti Classico, riferita a vini integralmente prodotti da vigne in conduzione diretta, con tempi minimi di maturazione e affinamento prolungati rispetto alle tipologie “Annata” e Riserva (30 mesi in cantina, di cui almeno 3 in bottiglia, prima della commercializzazione).
Non c’è alcun dubbio che su questo fronte il bilancio sia straordinariamente positivo, specie se ricordiamo le premesse con cui la Gran Selezione si affacciò sulla scena. Sul piano “interno”, il proposito primario era dichiaratamente quello di aggiungere un nuovo vertice alla denominazione, cercando di coinvolgere il maggior numero possibile di realtà che faticavano a scommettere pienamente sulla DOCG. Da una parte si tentava di recuperare quei vini di riferimento che preferivano il cappello dell’IGT, quantomeno i Super Tuscan a base sangiovese. Dall’altra si puntava a stimolare la nascita di etichette inedite, appositamente pensate per la categoria. Sul versante “esterno”, invece, la Gran Selezione rappresentava un messaggio rivolto al mercato, ai consumatori e alla critica, nell’intenzione non velata di innalzare la percezione del Chianti Classico in termini di valore ed immagine, allineandola (anche nei prezzi) a quello di altri grandi rossi italiani da invecchiamento.
Il debutto della Gran Selezione non riscosse però grande entusiasmo, per usare un eufemismo, bollata da tanti esperti come una mera operazione di marketing. Né arrivarono segnali molto diversi dalle stesse aziende: solo in 33 decisero di rivendicare la nuova tipologia nella primissima tornata di uscite e si trattava quasi sempre di grandi marchi, là dove le cantine artigiane si mostravano piuttosto fredde, se non apertamente ostili. Il quadro è poi progressivamente mutato e moltissimo hanno inciso gli effetti, più o meno voluti, delle modifiche apportate al disciplinare tra il 2021 e il 2023, sia per quanto riguarda la piattaforma ampelografica (con il sangiovese passato dall’80 al 90% minimo e il restante 10% ad appannaggio delle sole varietà tradizionali), sia per la scelta di legare la Gran Selezione alle Unità Geografiche Aggiuntive. Una doppia svolta decisiva dalle ricadute sorprendenti.
Senza il filo rosso del sangiovese, difficilmente le UGA avrebbero assunto il senso che hanno oggi e la ricognizione sarebbe stata a dir poco ingarbugliata. D’altro canto, la Gran Selezione ha mostrato di poter rappresentare un’idea stilistica diversa, sartoriale, e non solo uno strumento concepito per inseguire una fantomatica vetta. Da vino “additivo” (uve più mature, più estratto, più alcol, più legno) a laboratorio multidimensionale, adatto a plasmare etichette capaci di raccontare le specificità dei tanti territori del Chianti Classico, comprese le singole vigne. Da modello solo “verticale” a “verticale–orizzontale”, per usare un’approssimazione facile facile.
Non è un caso se i vini di oggi appaiono molto diversi da quelli degli esordi, almeno analizzandoli nella loro complessità. La tipologia non sembra più un contenitore per attrarre vecchi Super Tuscan o “selezioni château”, ma una casa moderna, rifinita e allettante per letture decisamente più ispirate e coerenti. Metamorfosi “genetiche” che hanno elevato enormemente l’indice di gradimento della Gran Selezione, come dimostrano anche i numeri: attualmente sono circa 200 le cantine che ne propongono almeno una in gamma e le bottiglie annue complessive superano i due milioni, corrispondenti al 6-7% della produzione totale certificata a DOCG.
Al di là delle cifre, sono vini sempre più divertenti e piacevoli da assaggiare – anzi, da bere – anche grazie ad un panorama aziendale nettamente più variegato e trasversale rispetto a dieci anni fa. Una categoria che assomiglia sempre meno ad un club esclusivo a misura di big brand, finalmente in grado di integrare anche tanti piccoli vignaioli (inclusi molti oppositori della prima ora), conquistando – magari per altre vie – quel ruolo centrale che avevano immaginato i suoi ideatori. Un percorso significativo sotto ogni punto di vista, che rende sicuramente più credibili i tanti brindisi al lavoro di squadra e all’unità nelle diversità, condivisi in questo lungo anno di festa.