Alla fine, al di là di tutte le barricate, posso sintetizzare la mia visione del vino dicendo che amo soprattutto la sua capacità di trasmettere l’originalità di un territorio, visto dagli occhi di chi lo vive, ovvio, e di rimanere deluso, per contro, dai casi in cui questa rappresentazione viene mortificata.
Preferisco questo semplice assunto alle mille etichette che circolano e molti dei vini che scelgo stanno bene sotto questo cappello.
Omologazione come deriva da evitare, dunque? In linea di massima si, ma anche su questo fronte i distinguo non mancano e la situazione è più ingarbugliata di quello che sembra. Un vino molle, estrattivo, vestito da ridondanti orpelli tostati, piuttosto che surmaturo nei toni, indistinguibile nella varietà oltre che nella zona di provenienza, mi respinge più di un bianco macerato eccessivo (tecnica capace di esaltare la zona in rari casi e di comprometterne la riconoscibilità in molti, a mio parere), con un pizzico di volatile sopra le righe o di un rosso realizzato con la macerazione carbonica.
Ecco, è questo il caso che ha fatto scattare il ragionamento. Alcuni ottimi vini che ho bevuto di recente sono fatti così, con una qualche macerazione carbonica. Deliziosi, come detto, ma forse non campioni di originalità. Se molti rossi “carbonici”, prodotti nelle terre più svariate e con uve diversissime riportano al naso, in bocca e alla mente le stesse sensazioni, un motivo ci deve pur essere. La mia risposta è che la tecnica di produzione è prevaricante.
“Sembra un Beaujolais”, mi fa un tizio assaggiando un taglio bordolese umbro, invero piuttosto buono. Stessa riflessione in altra occasione, bevendo un syrah del Roussillon scambiato per un Morgon.
Chissenefrega, direte voi. Il vino è buono e questo è l’importante. Ne convengo, ma voglio comunque sottolineare come il ragionamento abbia valore fino ad un certo punto, diciamo nella dimensione di puro edonismo, ma mi lascia perplesso sul piano superiore, privando il vino di caratteri decisivi come originalità e identità territoriale.
Entro nel dettaglio. Stravedo per le etichette di Lapierre e faccio carte false per bermi una bottiglia di Côte du Py di Jean Foillard (che realizza una specie di macerazione semi-carbonica, fatta lasciando nella vasca, assieme ai grappoli interi, una certa quantità di mosto, così da avere in un solo luogo la fermentazione intracellulare e un principio di quella alcolica); tuttavia sono rimasto colpito ancor più da un vino che mi ha portato Giulia. Non è l’unico rosso del Beaujolais che non fa macerazione carbonica, chiaramente, ma è uno dei pochi e mi è piaciuto parecchio. Forse meno goloso dei due mostri sacri citati, e di altri ancora, ma anche maggiormente dettagliato, sfumato e austero, incurante di perdere punti in termini di immediato piacere per acquistare un surlpus di personalità e originalità interpretativa.
Si tratta del vino, anzi dei vini di Michal Clotaire, prima sommelier a Londra, quindi apprendista vignaiolo in Languedoc con Christophe Peyrus, infine in Rodano, per cinque anni al fianco di Thierry Allemand. Qui inizia anche a vinificare per conto proprio, fuori dall’orario di lavoro, grazie all’acquisto di un fazzoletto di terra preso con l’aiuto di un vecchio amico. In Rodano Clotaire impara a lavorare la vigna in totale assenza di prodotti chimici, producendo syrah sui terreni granitici del Saint-Joseph.
Finita questa esperienza, nel 2013, si sposta a Saint Étienne la Varenne, in pieno Beaujolais, Attualmente possiede 3 ettari e mezzo di vigneti, posti su pendenze rivolte a sud, composte da granito rosa e sabbia, con tracce di quarzo. L’uva è ovviamente il gamay, le viti ad alberello, l’età media 70 anni. In cantina fermentazioni a grappolo intero (non in tutte le annate), lieviti indigeni, maturazioni in barrique esauste e pochissima solforosa (pari quasi a zero).
Ho assaggiato, anzi bevuto di gusto sia il Beaujolas Village La Napoleon ’16 che il Vignes Centenaires di pari annata. Buonissimo già il primo, dritto e verticale, forse un po’ stretto nel finale ma mai verde o troppo rigido, magnifico il secondo, terragno e speziato, accogliente quanto elegante e serio.
Del tripudio di caramelle, fragoline e gelée di frutti di bosco della macerazione carbonica, di quel carattere vinoso così ammaliante e un po’ coprente, per me spesso identificativo dei vini della zona, poche tracce. Ma per una volta la festa non mi è mancata.
* I vini di Clotaire sono importati in Italia da LM Fine Wine Merchant, la distribuzione di Luca Martini.
Una domanda, solo per capire: se la maggioranza dei produttori di Beaujolais utilizza la tecnica della macerazione carbonica, non diviene anch’essa parte di quell’identità territoriale di cui parla nel post, intesa come “savoir fare condiviso”, parte essenziale del concetto stesso di terroir?