Ci vorrà come di consueto un po’ di tempo per mettere ordine fra i tanti appunti, non solo bevitori, raccolti durante l’edizione 2018 di Campania Stories (link): solo qualche impressione a caldo, allora.
Campania Netf(e)lix. Se fosse una serie tv, direi che siamo all’ultima puntata della seconda stagione e già proiettati sulla terza. In quella di esordio conosciamo i pionieri del vino campano: dai coloni greci al metanolo, grossomodo. Per poi affezionarci alle trame innescate dai nuovi personaggi, che la trasformano caoticamente nei 30 anni successivi in una storia corale.
C’è la curiosità di capire cosa succede ora che tutto sembra ben assestato. Ora che i vari distretti assumono una precisa fisionomia. E che la stragrande maggioranza dei vini si colloca nella fascia buono-ottimo, adottando una scala da guida “classica”. Oggi che si registra qualche “sorpresa” ad ogni panoramica, ma i fuoriclasse, gli imprescindibili, restano una piccola percentuale e più o meno sempre gli stessi.
Remuntada roja. Sto esagerando: l’anima regionale si conferma sostanzialmente bianchista per varietà e qualità di opzioni. Eppure la forbice pare pian piano ridursi, rispetto alla proposta in rosso. Tendenza segnalata negli ultimi anni (link), che vede i vini a base aglianico recuperare smalto. Intendiamoci, non sono certo spariti quelli inutilmente dimostrativi, asciuganti, elefantiaci, ingolfati, faticosi. Ma aumentano senza dubbio le interpretazioni agili e succose, non per questo meno caratteriali. E per chi proprio non apprezza potenza materica e durezze assortite, c’è sempre il “piano P”. Come Piedirosso (non solo dei Campi Flegrei), portatore di gioia sia a tavola che in occasioni di questo tipo: quando l’ugola e il cervello pretendono a un certo punto spensieratezza ed empatia, erroneamente inquadrate per troppo tempo come sinonimi di banalità.
Prossima fermata: Vesuvio. Forse la “notizia” più bella dell’ultimo Campania Stories: dopo anni di apparente immobilismo, incrociamo belle facce fresche alle pendici del vulcano. In pratica si raddoppiano le aziende degne di attenzione, assaggi alla mano: ai nomi di Sorrentino e Casa Setaro aggiungiamo definitivamente almeno quelli di Cantine Olivella e Bosco de’ Medici. Forza Vesuvio non è solo un coro da stadio.
“Il” vino dell’edizione 2018. Forse stavolta non c’è l’etichetta che si stacca e arriva al traguardo a braccia alzate. So però quale mi porterei via se fossi costretto a sceglierne una e una sola: Greco di Tufo Miniere 2016 di Cantine dell’Angelo (Muto).
La batteria. Ripensando invece alla sequenza più entusiasmante in termini di autorevolezza espressiva, livello medio e punte: di gran lunga quella dei Fiano di Avellino. Specialmente nel momento in cui arrivano, uno dietro l’altro, i 2016 di Vadiaperti, I Favati, Pietracupa e Rocca del Principe. Poker d’assi vero.
La cantina. Consuetudine consiglierebbe di evitare le repliche, in particolar modo oggi che la comunicazione enoica richiede in continuazione nomi nuovi, magari non ancora commercializzati capillarmente. Ma farei torto alla qualità del lavoro raccontato dai vini di Villa Raiano. Per l’ennesima volta è la gamma nel suo insieme a brillare: dei cru di Fiano e Greco sapevamo da almeno un lustro, non mi pare invece che si parli ancora abbastanza degli ulteriori passi in avanti segnalati dai rossi a base aglianico.
Gli emergenti. Non sono tecnicamente dei debuttanti, ma il confronto ravvicinato con i migliori risulta fondamentale per misurarne le ambizioni e le chance di andare oltre l’effetto novità. Vale allora probabilmente la pena di seguire la crescita di realtà produttivamente giovani come Aia delle Monache (Colline Caiatine, pallagrello e casavecchia), Ventitré Filari (Fiano di Montefredane), Stefania Barbot (Irpinia Campi Taurasini e Taurasi) o Tenuta del Meriggio (batteria completa di vini irpini).
La rivelazione. Capisco le risate, ma si può e si deve spendere il termine di fronte alla selezione presentata dalla famiglia De Conciliis. L’avevo un po’ persa di vista, la ritrovo in grande forma: soprattutto i rossi da aglianico. Cilentani in senso virtuoso, sudisti ma non tropicali, gustosamente mediterranei. Con un Naima 2010 forse mai così appagante per souplesse di beva.
La sorpresa. Anche in questo caso può sembrare un paradosso, specie alla luce degli ultimi riconoscimenti pubblici attribuiti al “giovane” Luigi Sarno, alias Cantina del Barone (nonché consulente di altri bravi artigiani). E però non mi aspettavo un Particella 908 2017 già così nitido e leggibile, a maggior ragione considerando l’uscita fortemente anticipata rispetto al solito, resasi necessaria dopo il salto dell’annata 2016 (non prodotta a causa della gelata di fine aprile).