Mia sorella, che vive a Milano: «Sai, la mamma di un’amichetta di Lorenzo ha una cantina nelle Marche. Non so bene di che si tratti ma lei si chiama Beatrice Garofoli».
Fermi tutti. Come Garofoli? Quella Garofoli? «Informati bene – le faccio – e organizza una visita con assaggi assortiti appena possibile. Ah, che non manchi qualche vecchia annata di Verdicchio, mi raccomando».
A parte mia sorella, tutti sanno cosa significa il nome Garofoli per il vino marchigiano, non c’è bisogno che l’ultimo fesso ne rammenti l’importanza. Eppure non ero mai stato in azienda, divertente che l’occasione buona sia arrivata in modo così bizzarro.
Le radici sono addirittura ottocentesche, come testimonia la data incisa su un vecchio torchio all’ingresso della cantina, anche se l’anno di nascita ufficiale è il 1901 e il papà dell’impresa Gioacchino Garofoli, che gli dà il nome. Il boom arriva negli anni Cinquanta, vent’anni dopo ecco la generazione di Franco, Carlo e Gianfranco. Gli ultimi due, oggi, a capo dell’azienda, che nel frattempo ha visto l’ingresso della quinta generazione di famiglia. I figli di Gianfranco, Caterina e Gianluca, e la nostra Beatrice. Appunto. Lei non ha perso confidenza col vino e con la sua cantina; nonostante Milano, la lontananza voluta, il tuffo in una nuova attività tutta sua, nel mondo della moda.
Direi che abbiamo gusti simili, io e Betarice, almeno a giudicare dalle considerazioni sulle bottiglie assaggiate insieme. Ci siamo capiti al volo, insomma, bicchiere dopo bicchiere.
Ecco com’è andata:
Pas Dosé 2009
Garofoli, il verdicchio e il metodo classico. Storie che si intrecciano dalla metà del Novecento e che fanno dell’azienda un pioniere della spumantistica da varietà autoctone, in Italia. La novità, almeno per me, è il Pas Dosé. Buono, con profumi che alternano note mature di frutta e miele a sfumature fresche, di balsami e mallo di noce. I cenni di lieviti accompagnano sia il naso che la bocca, decisamente più fresca e verticale. E’ chiusa dalla classica mandorla amara, appena sopra le righe. ***
Verdicchio dei Castelli di Jesi Classico Superiore Podium 2015
Per gli appassionati, me compreso, il vino di riferimento. Ne ho qualche vecchia bottiglia in cantina e credo che a breve ci finirà anche questa. Versione che mi piace, di bell’impatto solare eppure attraversata da fresche folate verdi: muschio, salvia, mentuccia. Il sottofondo salmastro è delizioso, riempie una bocca già di per sé spessa, avvolgente, di bel peso specifico ma mai greve, grazie all’acidità, alle erbe aromatiche e al solito movimento balsamico. ****+
Verdicchio dei Castelli di Jesi Classico Superiore Podium 2010
A detta di molti, una delle migliori versioni degli ultimi anni. A me pare stia attraversando una fase di passaggio: non ha più la brillantezza sbarazzina di qualche tempo fa e non è ancora entrato nella fase della piena complessità terziaria. Un guado che comunque non lascia l’amaro in bocca, specie per i profumi di polline e fiori gialli e la bocca scattante, non certo grossa, forse un filo meno energica della ’08. ****-
Verdicchio dei Castelli di Jesi Classico Superiore Podium 2008
Annata che segna una certa svolta stilistica, la rinuncia alla malolattica e la voglia di vini più brillanti e meno opulenti. Il risultato, a sentirlo ora, è straordinario. Vino in forma pazzesca: profuma di buccia di limone candito, sulle prime, per deviare col passare dei minuti su richiami marini sempre più evidenti: iodio, salsedine, ostrica. La bocca è magistrale, perfettamente in equilibrio tra forza e profondità, muscoli e dinamismo. Dolce e salato, appena ammandorlato su un finale che pare non finire. *****
Verdicchio dei Castelli di Jesi Classico Riserva Gioacchino Garofoli 2008
Un po’ come succede per Bollinger tra Grande Année ed R.D., non tutti i Podium diventano Riserva Gioacchino Garofoli ma tutti i Gioacchino Garofoli sono stati Podium. Si tratta infatti di una selezione di cantina che sosta sulle fecce più a lungo. Questa versione è uscita sul mercato nel 2015: spazia dagli agrumi canditi al melone, non senza qualche cenno di lievito dovuto al lungo contatto. Vino che definirei senza dubbio grasso, glicerico, caldo e potente. Con tanta rotondità, l’amarognolo finale è un po’ più percettibile e fastidioso. ***
Verdicchio dei Castelli di Jesi Classico Riserva Serra Fiorese 1986
Uve a piena maturazione, fermentazione e affinamento in barrique. Paura? Un po’ si, anche se di recente le cose sono cambiate e stanno cambiando, con dosi tostate sempre più calibrate. Già, ma agli esordi? A giudicare da questo vino, che ha più di trent’anni, ci andavano giù pesanti col legno. Il Serra Fiorese ’86 è un tuffo in un’altra era enologica anche se il tempo gli ha dato un fascino indubbio e la gioventù è incredibile. Il colore è brillante mentre i profumi non lasciano dubbi sul passaggio in botti piccole (all’epoca 100% nuove): grano arso, nocciola, cereali, torba da whisky e tratti affumicati assortiti. Bocca coerente, burrosa, centrata nell’impostazione grassa e orizzontale. Vino da sindrome di Stoccolma. Non è il mio, sulla carta, ma mi attira in modo strano. ***