«Il Verdicchio non esiste: esistono I Verdicchio» (Dante Johnny the Fly featuring Kuaska)
Il calendario 2016/17 del Tipicamente Wine Club – Sezione Campania riparte, nuovamente grazie alla collaborazione del Marennà di Sorbo Serpico, con la serata dedicata al magico mondo del Verdicchio marchigiano.
“Miglior bianco italiano” per tanti, una specie di cryptonite per molti altri: tra amici e colleghi bevitori ne conosco un bel po’, appartenenti ad entrambi i gruppi.
Un “dibattito” che francamente mi appassiona poco, per i motivi ben sintetizzati nella citazione iniziale. Quale idealtipo abbiamo in testa quando ci dichiariamo adoratori o haters del Verdicchio? Quello rieslingheggiante alla Collestefano o quello “alsaziano” dei vecchi Balciana, con tutto quanto c’è nel mezzo? I “base” di pronta beva o le selezioni-riserve in perfetta forma dopo 20 e più anni? O ancora: le versioni Spumante, le raccolte tardive e i passiti, quelli lavorati in acciaio, cemento o legno, con tecniche riduttive od ossidative, con macerazioni sulle bucce o in pressatura diretta, con inoculo o fermentazioni spontanee, con o senza malolattica, eccetera eccetera eccetera?
Senza farla tanto lunga, credo che almeno su un punto possiamo ecumenicamente convergere. Nessun altro vino-vitigno autoctono è in grado di proporsi ad alti livelli con un repertorio così ampio e diversificato di espressioni, interpretazioni, tipologie. E dalla nostra ricognizione, affidata a 16 etichette, 12 aziende, 8 annate e tutte le principali macrozone, sono arrivate soltanto conferme in tal senso.
Un test ostico e al tempo stesso stimolante proprio per la mancanza di coordinate “sicure”. Da una parte non è sempre agevole seguire il filo quando i bicchieri oscillano continuamente tra personalità anche diametralmente opposte. Dall’altra la virtuosa combinazione di variabili territoriali e stilistiche consente ad ogni singolo bevitore di scovare il Verdicchio giusto per ogni occasione e preferenza. Ciò che in distretti meno maturi può apparire come confusione, tra Jesi e Matelica diventa valore aggiunto. Il segno di una piena consapevolezza produttiva, che permette alle numerose realtà della zona di scegliersi in qualche modo pubblico e clienti.
Mi pare una lezione istruttiva, specialmente in questa lunga fase di transizione comunicativa e commerciale. Che troppo spesso ci porta, plurale obbligatorio, a trascurare il peso e il valore del fattore uomo-donna nell’inscindibile trinità incarnata dai grandi vini da terroir. E’ un gioco tremendamente divertente quello dei terreni, delle altimetrie, dei microclimi e dei versanti, non sarò certo io a negarlo. A patto di non dimenticare che si tratta, appunto, di una chiave ludica alla scoperta delle complessità vinose, con inevitabili errori ed approssimazioni.
Ci siamo esercitati anche noi, provando ad ipotizzare alla cieca le macro-aree di provenienza: Matelica o Castelli di Jesi, innanzitutto, e per i più coraggiosi la riva dell’Esino, la scuola tecnica di riferimento, la tipologia di azienda, e così via. Avevamo studiato ben bene il manuale: a Matelica i Verdicchio più leggeri, “nordici” e verticali, a Jesi quelli più alcolici, potenti e salmastri; a Montecarotto, Ostra Vetere, Serra de’ Conti, Maiolati (riva sinistra) più delicati e floreali, a Cupramontana, Staffolo, Jesi (riva destra) più fitti ed inquieti, senza dimenticare l’impronta quasi appenninica di Apiro e Cingoli. E però. E’ bastato un “base” de La Monacesca schierato contro Il Capovolto de La Marca di San Michele per far crollare subito le certezze teoriche. Il più leggiadro e affusolato era infatti lo jesino, mentre quello con maggiore spalla fruttata si è scoperto essere il matelicense . Scambi di identità ripetutisi spesso, là dove cresceva – batteria dopo batteria – la precisione descrittiva dei compagni di tavola rispetto agli stili raccontati nei vini.
Mai come in questa occasione le hit parade finali si sono rivelate tanto diverse, da bevitore a bevitore. Distanze più ravvicinate del solito, frutto di un equilibrio che per una volta non è appiattimento ma spinta verso l’alto. Se fosse un campionato di calcio, il Verdicchio sarebbe la Premier League. Con una ricca rosa di squadre competitive e di solida tradizione, ognuna in grado di conquistare allori. E’ l’altro aspetto su cui non si può fare a meno di riconoscere al macro-comprensorio del Verdicchio una leadership all’interno del comparto bianchista italico. Tra Jesi e Matelica riusciamo rapidamente a mettere insieme un gruppo di almeno 40-50 aziende che si contendono le preferenze di guide e affini. E molte di queste sono cantine operative da decenni, che possono tirar fuori nelle occasioni importanti autentici gioielli più che maggiorenni. Longevità non è automaticamente sinonimo di grandezza, se ne parlava giusto qualche giorno fa su Facebook. Ma è altrettanto vero che il prestigio dei migliori bianchi europei viene continuamente misurato anche sulla possibilità di stappare bottiglie emozionanti a lungo termine.
Quelle punte che sono forse un po’ mancate, complice qualche tappo non performante, tipo ciliegina su una torta come detto abbondante e golosa. Ma continuerò a cercare tra le colline marchigiane vecchi e nuovi fuoriclasse con cui arricchire il pantheon delle più coinvolgenti bevute a tema, da custodire affianco ai Cuprese ’91, Villa Bucci ’92, Mirum ’94, Podium ’97, Collestefano ’02, giusto per citare i primi che mi vengono in mente. La serata non contribuisce ad aggiornare la hall of fame Verdicchio, insomma, ma bottiglie che avrei voglia di ribere ci sono, eccome. Per esempio:
La Marca di San Michele – Verdicchio dei Castelli di Jesi Classico Sup. Capovolto 2013
San Michele di Cupramontana, riva destra Esino. Gestione bio, 350/400 metri, terreni argilloso calcarei, vinificazione classica in acciaio, 7 mesi sur lie.
Fine e aggraziato fin dal primo impatto, fiori bianchi ed erbe primaverili, un tocco di anice e mandorla fresca più evidente al palato: energicamente salino, mobile e sfaccettato.
La Monacesca – Verdicchio di Matelica Mirum Riserva 2012
Cru di circa 3 ettari in contrada Monacesca di Matelica, ultima raccolta (solitamente fine ottobre), con una parte di uve surmature, vinificazione classica e lunga sosta sur lie in acciaio, in commercio dopo circa due anni.
Bellissima versione, non così distante dalle best ever (’94, ’97, ’01, ’06, ’10): aromaticamente imbronciato sulle prime, con strani richiami linfatici e leguminosi, si staglia rapidamente nel bicchiere su atmosfere quasi “loireggianti”. Ma il meglio arriva dalla bocca, come di consueto “cartesiana” nell’incrocio tra la potente ascissa orizzontale e la vibrante ordinata citrina: polpa, nerbo e sapore.
Sparapani – Verdicchio dei Castelli di Jesi Classico Sup. Il Priore Frati Bianchi 2011
Cupramontana, riva destra Esino, 450 metri slm, vinificazione classica in acciaio, circa 6 mesi sur lie.
Impianto dolce e solare, tra glicine, pera e balsami, con tocchi delicatamente iodati: a dispetto dell’annata calda e siccitosa, si dimostra tonico e sostenuto grazie alla fitta spalla salmastra, con lungo finale di scoglio e battigia. Epitome del Verdicchio orizzontale-mediterraneo classico (e buono), non è la bottiglia da consigliare a chi cerca sferzate teutoniche a tutti i costi.
Pievalta – Verdicchio dei Castelli di Jesi Classico Sup. Dominé 2010
Blend di uve provenienti da due versanti molto diversi della valle Esina: Maiolati Spontini (terreni argilloso-calcarei) e San Paolo di Jesi (altura ventilata, forti pendenze, pietra arenaria). Pressatura diretta e vinificazione in inox, sur lie per qualche mese.
Richiede un po’ di pazienza per scrollarsi di dosso qualche impuntatura “collosa”, che sembrerebbe segno di evoluzione e si rivela invece soltanto timidezza. La bocca è infatti tra le più rigogliose, spontanee ed energiche, vivace e continua anche nel finale leggermente tannico.
Andrea Felici – Verdicchio dei Castelli di Jesi Classico Il Cantico della Figura Riserva 2010
Vigne tra Apiro e Cupramontana, riva destra Esino. Le colline più a ridosso del Monte San Vicino, oltre 500 metri di altitudine, vinificazione in cemento vetrificato e acciaio, con lunga sosta sur lie.
Senza dubbio il più spiazzante dell’intera line up: registro per molti versi “altoatesino” tra erbe di campo, frutto bianco acerbo, agrumi chiari, con un tocco affumicato-tostato quasi “fianeggiante”. Uno dei più giovani e prospettici nella fibra sassosa e martellante del sorso, ancora un po’ crudo in chiusura ma probabilmente in grado di distendersi ed amalgamarsi con autorevolezza negli apporti sapidi da qui a qualche lustro.
Garofoli – Verdicchio dei Castelli di Jesi Classico Gioacchino Garofoli Riserva 2006
Prodotto solo nelle grandi annate, selezione di uve provenienti principalmente dalle vigne di Montecarotto e Serra de’ Conti, riva sinistra Esino. Vinificazione classica in acciaio, quasi due anni sur lie e almeno 12 mesi in bottiglia.
Astenersi ammiratori delle modelle taglia 38: è un Verdicchio materico e glicerico, che a dieci anni dalla vendemmia si fa apprezzare per integrità strutturale ed armonia, legata alla fitta spalla sapida più che al nerbo acido. Ma anche per la capacità di pescare da più registri aromatici, dichiaratamente mediterranei nei tocchi canditi e officinali, più “appenninici” nei richiami rocciosi e fluviali.
Tipicamente Wine Club2016/17 – Prossimo appuntamento
Il prossimo appuntamento del Tipicamente Wine Club è in programma Lunedì 24 Ottobre, con la serata “Nebbiolo e Alto Piemonte: zone, stili, interpreti” (15 vini di varie annate delle aziende Antichi Vigneti di Cantalupo, Antoniolo, Antoniotti, Cantina Produttori Nebbiolo di Carema, Paride Chiovini, Ferrando, Le Piane, Platinetti, Sella, Torraccia del Piantavigna e Travaglini).
Qui il calendario completo delle degustazioni: link.
Beh,
a dire la verità mi sono riconciliato col vitigno, la trasversale di Verdicchio, annate, zone, aziende, stili, mi hanno spiazzato positivamente, eleganza e longevità nei vecchi Garofoli e Umani Ronchi senza essere per forza a cosce aperte e senza approcciarli con il pregiudizio di chi beve solo piccoli produttori, l’unicità di stile di Collestefano, adorabile, la certezza fuori dagli schemi classici di Matelica de La Monachesca, la salinità orizzontale d Sparapani, la timida sottigliezza del Pievalta che esce piano, piano, la subblime stravaganza rispetto ai canoni Matelica/Jesi di Andrea Felici, quasi un Fiano base di Pietracupa, la variabilità dei vecchi Bucci, complessi, mai domi e a volte scavallati, continuo a non entrare in empatia con il Capovolto de La Marca di san Michele, ma forse è un problema mia capire quell’essere sussurrato e troppo fermo sulle sue posizioni!
Beh,
a dire la verità mi sono riconciliato col vitigno, la trasversale di Verdicchio, annate, zone, aziende, stili, mi hanno spiazzato positivamente, eleganza e longevità nei vecchi Garofoli e Umani Ronchi senza essere per forza a cosce aperte e senza approcciarli con il pregiudizio di chi beve solo piccoli produttori, l’unicità di stile di Collestefano, adorabile, la certezza fuori dagli schemi classici di Matelica de La Monachesca, la salinità orizzontale d Sparapani, la timida sottigliezza del Pievalta che esce piano, piano, la sublime stravaganza rispetto ai canoni Matelica/Jesi di Andrea Felici, quasi un Fiano base di Pietracupa, la variabilità dei vecchi Bucci, complessi, mai domi e a volte scavallati, continuo a non entrare in empatia con il Capovolto de La Marca di san Michele, ma forse è un problema mio capire quell’essere sussurrato e troppo fermo sulle sue posizioni!