Te li do io i descrittori dei vini!

Albanese-sommelier

Non c’è bisogno di tirare fuori l’improbabile sommelier di Antonio Albanese per criticare un certo modo di descrivere i vini.

Nessun addetto ai lavori, chi più chi meno, sembra essere immune alla strana sindrome dello snocciolatore di decrittori e una “sella di cavallo bagnato” prima o poi ci scappa.
Scherzi a parte, descrive i vini non è affatto facile. Un’involontaria comicità è sempre dietro l’angolo, così come il rischio di dire tanto facendo capire poco. Gli esperti ci hanno abituati alla classica lenzuolata di aggettivi, più o meno originali o simili a loro stessi, tanto seducenti quanto incapaci di empatia. Farsi capire è nelle possibilità di alcuni; svelare con le parole l’essenza di un vino, creando un ponte tra la bottiglia e il lettore, privilegio di pochi.
Giulio Gambelli, rimpianto assaggiatore di uve e vini, era un fuoriclasse anche in questo. Come ci racconta Giovanni Livi, amico di “bicchierino” e suo fedele accompagnatore negli ultimi 7-8 anni di attività, il maestro del sangiovese aveva un vocabolario tutto suo. In linea con la speciale semplicità che lo distingueva, Gambelli non aveva bisogno di tante peripezie gergali per inquadrare un bicchiere.
Per lui un vino poteva avere “una buona spalla”, essere “profondo” e tutt’al più “lungo”. Quando raggiungeva l’ecccellenza, invece, si rivolgeva al produttore con sguardo furbo e gli diceva: “questo lo compro io”. A volte i critici si accapigliano con i vignaioli, criticando i loro vini perchè eccessivi. Troppo legno di quà, estrazione o maturità in eccesso di là. Forse dovrebbero fare altrettanto con i lori scritti.

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