
Spero di non essere l’unico ad avere l’hard disk intasato di BOZZE. Di articoli, post, report, focus. Pensate, iniziate, revisionate, ma mai terminate, per varie ragioni.
Ne ho contate una cinquantina nella sola cartella Tipicamente. Ogni tanto le riapro e nella maggior parte dei casi capisco dopo la prima riga perché sono rimaste lì nel limbo. Qualche spunto interessante magari mi sembra di trovarlo, ma irrimediabilmente “fuori tempo”. Eppure a cercar bene lo pesco quasi sempre il file giusto, pronto ad essere ultimato a distanza di settimane, mesi o addirittura anni. Mi piace pensarle come “bozze da invecchiamento”, bisognose di maturare e sedimentare per raggiungere l’espressione ottimale, come certe bottiglie.
L’ultimo reperto di questo tipo risale al novembre del 2009. Ero fresco reduce da una fantastica cena al ristorante La Pergola del Cavalieri Hilton di Roma (link), regalo di nozze a dir poco gradito degli amici del Master GR. E volevo condensare in un post la felicità multisensoriale di quell’esperienza, evitando tuttavia di parlare dei piatti assaggiati, della cucina di Heinz Beck e concentrandomi esclusivamente sull’assistenza ricevuta durante la serata. Si è rivelata una prova superiore alle mie capacità, lo confesso. Sbattevo ad ogni tentativo contro il medesimo scoglio. L’impossibilità di trovare parole adatte per spiegare cosa significhi essere ospite in un posto come quello senza riportare il tutto ad una chiave meramente emozionale. Stigrandissimicazzi, sarebbe stata la vostra reazione più probabile (e legittima) all’unico concetto che riuscivo ad elaborare: “lo staff di Heinz Beck può farti sentire l’uomo (o la donna) più importante del mondo”.

Cosa è cambiato nel frattempo? Poco o nulla, ovviamente. Ma mi sono deciso a scongelare la bozza dopo una serie di recenti chiacchierate, tutte virate ad un certo momento sul tema della sala e del servizio. Con almeno un punto di unanime confluenza: si discute troppo poco in Italia su quanto possa risultare decisiva nel successo – anche economico – di un locale (e di qualsiasi attività ricettiva) la capacità e la voglia di far star bene le persone. E quando dico bene, intendo proprio gioia, serenità, contentezza. Come se davvero bastasse proporre una grande cucina, tradizionale o creativa non importa, per attrarre clienti e soprattutto farli ritornare. Come se sul serio la partita si giocasse esclusivamente sul terreno della visibilità e dell’appeal mediatico.
A me pare che questa sottovalutazione si manifesti spesso nella tipologia di posto che meno se lo potrebbe permettere. Là dove si coltivano ambizioni attraverso la sperimentazione, la ricerca di nuovi linguaggi, l’applicazione di tecniche all’avanguardia. O forse è solo paura, timore che ai loro ospiti accada quel che è successo a me quando ho cenato alla Pergola. Sono passati come detto più di sei anni, ma già allora dopo pochi giorni non rammentavo nel dettaglio i singoli piatti assaggiati. Ricorderò invece per sempre, ne sono sicuro, quel benessere totalizzante a cui accennavo in precedenza. L’ebbrezza di viversi “re per una notte”. Come se per una volta fossi tu al centro dell’universo e tutte le persone attorno a te avessero come unico dovere, anzi come unica preoccupazione, di saperti in pace col cosmo. La faccia di Robert De Niro nell’ultimo fotogramma di C’era un volta in America.
Riecco lo scoglio invalicabile: non so trovare termini “tecnici”, oggettivi, didascalici per trasporre la perfezione di quella sala e di quel servizio. Non avrebbe senso elencare quello che hanno fatto o hanno detto i vari maitre, camerieri e sommelier, le posate che hanno portato o il bicchiere che hanno usato. Non è una questione di protocolli e regolette, è uno stile. Il talento più unico che raro di seguire l’ospite senza farlo mai sentire osservato, senza pinguinismi o caricaturali affettazioni. Ma soprattutto la magia di viaggiare per tre ore su quel filo invisibile, ma reale, che separa la sponda del formale da quella dell’informale. E una parola per nominare questa cosa qua, ad oggi, non esiste.
Facile orchestrare il servizio perfetto quando hai la potenza economica dell’Hilton alle spalle e puoi permetterti quasi più maitre che coperti, obietterà qualcuno. Non lo si può negare, eppure anche qui gli aspetti quantitativi contano fino a un certo punto: il personale della Pergola sembrava plasmato, modellato, addestrato, tipo da un sergente dei Marines con delega alla direzione artistica. La loro era una presenza-assenza, una mimesi propedeutica alla materializzazione solo quando e come serve. Favorita da un qualche potere telepatico-cinetico che gli permette di leggere nella tua mente ogni esigenza, ancor prima che tu ti accorga di averla. Ti ritrovi rapito, coccolato, inebetito da una vera e propria danza, come la descrive Antonio: lampi da Bol’šoj, formazione classica e sensibilità contemporanea. Non trovo immagine più efficace di questa per darvi quantomeno un’idea di ciò che rende tanto speciale la brigata di sala coordinata da Simone Pinoli e Marco Reitano.

Sono entrambi professionisti affermati, ben conosciuti nell’ambiente anche da chi non ha avuto la fortuna di vederli all’opera all’Hilton. E vale qui il medesimo discorso di prima: fate un errore madornale se pensate che sia tutto riconducibile a questioni di budget e risorse. Le 60.000 bottiglie custodite nei vari caveau certamente aiutano, sarei un folle a negarlo, ma una megacantina può trasformarsi facilmente in superzavorra se non sai come gestirla. E’ una vera e propria arte, che da un lato si può imparare con lo studio e la pianificazione, dall’altro richiede doti innate di fantasia e istinto. Un’altra cosa che ricorderò sempre della serata romana, infatti, è il nirvanico matrimonio regalatoci dal capo Sommelier con il percorso di abbinamento al bicchiere. Mai mi era capitata fino ad allora una sequenza tanto centrata da apparire l’unica possibile. Composta da vini che mai e poi mai avrei scelto dalla carta, e che invece si armonizzavano con le creazioni di Beck e della sua squadra in maniera quasi simbiotica, decuplicandone intensità, persistenza e piacere.
Ritengo dovere civico depositare un disegno di legge che preveda l’obbligo per ogni cittadino italiano di recarsi almeno una volta nella vita alla Pergola. Con lo Stato che dovrebbe farsene carico, come servizio necessario-primario, alla stregua di quelli scolastici, sanitari e infrastrutturali. Clausola propedeutica, inoltre, per chiunque stesse anche solo pensando di aprire una propria attività ricettiva, o di lavorarci. L’empatia non si può insegnare, siamo tutti d’accordo, quella ce l’hai o non ce l’hai. Ma esperienze come queste dovrebbero servire proprio a farsi domande così: se fondamentalmente non ti piace stare a contatto con “la gente”, perché pensi che il business plan del tuo ristorante dovrebbe funzionare?
Molti chef-patron lamentano la difficoltà di reperire personale di sala all’altezza. E’ un problema reale, per milioni di motivi, a partire dalla radicatissima idea di fondo che il “cameriere” galleggi ai gradini più bassi della scala sociale. Né si intravedono processi in grado di sovvertire rapidamente lo schema, come accaduto invece per la figura del cuoco, decisamente più figo dopo Masterchef e i suoi fratelli, anche per un pubblico molto giovane. E’ altrettanto vero, tuttavia, che in molti casi non sembra esserci negli stessi proprietari, direttori, manager, quella attenzione poi pretesa dai collaboratori. E non parlo di chissà quali preziosismi comunicativi, ma di pratiche basilari, come rispondere educatamente ad una telefonata o accogliere un cliente con un saluto.

Ci sono posti in cui ho mangiato bene, dove non metterò mai più piede per l’estremo disagio provato durante la permanenza, spesso a partire dalla prenotazione. Locali in cui percepisci fin dal primo contatto una dose di tensione, tipica di chi si allena quotidianamente per una performance. Solo che alla fine sembri tu, cliente, quello sotto esame, come se toccasse a te dimostrare di essere al livello dello spettacolo allestito. Attenendoti strettamente ad un copione che pone al centro della scena altri protagonisti: sei uno del pubblico, comportati come tale, sembra dirti ogni loro interazione, verbale e non.
Conosco tanti gourmet che cercano esattamente questo tipo di fruizione: scelgono un ristorante o uno chef come spulciando un cartellone teatrale o il calendario dei concerti. Non ho alcuna intenzione di discuterlo come approccio, dico soltanto che non è il mio, oggi meno che mai. Ci tengo a “mangiar bene”, qualunque cosa significhi, ma desidero ancor di più passare qualche ora in un posto che mi faccia sentire il benvenuto. Dove si avverta il piacere di prendersi cura dello scofanatore-bevitore, dove il sorriso sia parte integrante del menù e non assomigli ad una smorfia figlia di esercizio ginnico.
Spero e credo che per regalarsi momenti così non sia necessario ricorrere ogni volta ad un intero stipendio di classe media. Non vedo l’ora di tornare alla Pergola, ma sono convinto che avremmo tutti solo da guadagnare se i Simone Pinoli e i Marco Reitano si moltiplicassero là fuori, a prescindere dalla tipologia di locale. E’ il momento di farla conoscere per davvero gente così, trasformarla sul serio in fonte di ispirazione per tanti ragazzi. Che potrebbero costruirsi un futuro denso di opportunità e soddisfazioni attraverso un mestiere nobilissimo che nessuno sembra voler più imparare, se non per periodi molto limitati e senza una reale vocazione.