Guglielmo Bellelli | Interviste (ancora più) impossibili davanti a un bicchiere di vino

foto di gruppo

So che non lo direste davanti al mio essere bello bello in modo assurdo (cit.), ma comincio ad avere una certa età. Sono dunque vecchio abbastanza da potermi permettere almeno l’accatastamento di un personale pantheon. Da dedicare a chi in questi anni ha contribuito in maniera significativa ad alimentare (e rendere più divertente) il mio rapporto con l’alcolismo.

Non mancherà una nicchia riservata a Guglielmo Bellelli, per noi semplicemente “il Prof”. Stimatissimo accademico specializzato in Psicologia delle Emozioni, autore, scrittore, blogger, il suo curriculum non può essere riassunto in poche righe. Ma preferisco soprattutto spiegarvi cosa mi piace del suo modo di vivere la passione enoica, peraltro condivisa col pubblico di lettori attraverso i report pubblicati sul sito Winesurf di Carlo Macchi (link) e sul suo blog World Wine Web (link).
#piùguglielmopertutti: sarebbe l’hashtag giusto per la campagna di sensibilizzazione che ho in testa. Un tour col Prof tra enoteche e winebar dello stivale per dire che sì, è possibile conciliare una conoscenza iperapprofondita del mondo bacchico con la dimensione conviviale, nel senso più alto e classico del termine. Stappare grandissime bottiglie senza perdere il gusto della ricerca, sapere tutto del produttore X o della parcella Y senza trasformarsi in tromboni e conferenzieri H 24, alla continua ricerca di una corte acclamante.

Guglielmo Bellelli
Guglielmo Bellelli

Guglielmo Bellelli ha bevuto molti dei vini-leggenda dell’ultimo secolo, per usare una sigla a lui cara, girando per vigne e cantine di mezza Europa (Francia in testa) come e più di tanti winewriter professionisti, o aspiranti tali. Ma a differenza di molti che conosco, non lo fa mai pesare, anzi: è un compagno di tavola sereno, rilassato, abituato a valorizzare quel che di buono un bicchiere (e un abbinamento) ha da offrire, piuttosto che accanirsi su eventuali limiti. Un approccio che favorisce il godimento e rende la bottiglia un formidabile mezzo di comunicazione tra persone, da cui partire per viaggiare praticamente in qualsiasi ambito della cultura umana.
E’ esattamente questo lo spirito che anima il suo ultimo libro, pubblicato ad inizio 2015 da Mario Adda Editore: Interviste (ancora più impossibili) davanti a un bicchiere di vino (link). Da un punto di vista strettamente tecnico non è un sequel, ma fin dal titolo è dichiarata la continuità con la “prima puntata” degli incontri immaginari avuti dall’autore con grandi uomini e donne del passato, o protagonisti di opere letterarie. Chiacchierando davanti ad una bottiglia che gli intervistati avevano amato in vita, o avrebbero potuto amare, raccontata ogni volta in un’appendice saggistica, tanto leggera nella forma quanto precisa e rigorosa nella precisione documentale. Un po’ storyfiction, un po’ winetellyng, dunque, è in effetti un testo che sfugge alla classificazione di genere, e merita di essere sfogliato proprio con un bel bicchiere a portata di mano, e uno smartphone per saperne di più sui personaggi che scandiscono i diversi capitoli.
libro
Vlad III di Valacchia (alias il Conte Dracula), Ettore Fieramosca, Dom Pierre Perignon, Samuel Pepys, Il Principe di Metternich, Alexandre Dumas padre, Giuseppe De Nittis, Giacomo Puccini, il Commissario Maigret, il cavallo Ribot: già la scelta dei faccia a faccia stuzzica particolarmente. Rispetto alla prima serie, questa volta il Prof si immagina come un vero e proprio “crono-giornalista”, e gli intervistati avrebbero potuto realmente bere in vita i vini ricordati. Anzi, in qualche caso è assolutamente certo: basti pensare a Samuel Pepys, che fu forse il primo inglese a recensire Chateau Haut Brion, nel 1663, dopo averlo tracannato alla Royal Oak Tavern, in Lombard Street, Londra. Un ulteriore tocco di plausibilità e verosimiglianza, insomma, che rende solo più preziosa la lettura, specialmente per chi ama l’accuratezza nella ricostruzione di biografie, accadimenti storici, opere artistiche e letterarie.
Ho avuto l’onore di partecipare alla tappa avellinese del piccolo calendario di presentazioni del libro curate dal Prof. Alla sua maniera, e cioè condividendo alcune bottiglie custodite nel mitologico caveau sei metri sotto il cielo, quando possibile le stesse virtualmente evaporate durante le interviste immaginarie. E la location, come dicono quelli fighi, non poteva che essere la Pasticceria-Gastronomia-Bar-Enoteca dei fratelli Roberto e Francesco (De) Pascale (link), al cospetto di una nutrita delegazione di LASP, i Liberi Assaggiatori Senza Pregiudizi, allegra combriccola di cui Guglielmo è socio premium.
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Serata memorabile sotto tutti i punti di vista, prima di tutto per l’atmosfera gioiosa e distesa, arricchita dai contributi di Luigi Tecce, Massimo Di Renzo e Piero Mastroberardino. Proprio i loro Taurasi hanno fatto da trait d’union nella doppia batteria messa insieme dal Prof, che nel libro punta sul principe dei rossi irpini per prendersi una piccola licenza, e una rivincita, davanti ad Alexandre Dumas Padre. Non tutti sanno, infatti, che lo scrittore francese si considerava un raffinato gourmet e non lesinò critiche sparse tra appunti e diari nei confronti dell’enogastronomia campana, ben conosciuta durante i suoi soggiorni a Napoli. Ma la bottiglia che sceglie per la chiacchierata si rivela difettata, ed eccolo impallidire davanti al Taurasi Riserva 1968 di Mastroberardino portato come “muletto” dal nostro crono-giornalista preferito.
A noi è andata perfino meglio, perché di grandi Aglianico ne sono toccati ben sei, a partire dalle tre versioni “mga” della totemica annata 1968. L’unico esperimento in questa direzione da parte della gloriosa cantina di Atripalda, che per volontà del Cavaliere Antonio (scomparso ad inizio 2014) affiancò al “base” e alla Riserva tre selezioni corrispondenti a comuni, contrade, toponimi dell’areale: Piano d’Angelo di Taurasi, Castelfranci e Montemarano. E’ capitato di berli altre volte, ne abbiamo anche parlato qui, ma mai avevo trovato finora bottiglie in questo stato di forma, oserei dire irreale.
3 '68 + 1 '61
Fin dal granata sfavillante della tinta dimostravano un ventennio in meno: alla cieca si sarebbe detto fine anni ’80-inizio ’90, a maggior ragione per l’integrità fruttata, rigogliosa e giovanile, puntualmente confermata in strutture gustative intatte, carnali ed appaganti. Siamo lontani anni luce dallo stereotipo dei rossi evoluti, apprezzati al massimo da perversi necrofili: la loro grandezza è comprensibile da qualunque tipo di naso e palato, come solo i vini realmente “assoluti” sanno essere. Svelando, perdipiù, una corrispondenza chirurgica con i caratteri espressivi che associamo alle sottozone attraverso i Taurasi di oggi. Piano d’Angelo il più longilineo e vulcanico, Montemarano il più “maschio”, scuro e vigoroso nell’impalcatura tannica, Castelfranci la quadratura del cerchio per l’equilibrio tra potenza ed eleganza, volume fruttato ed energia sapida.
Emoziona e allo stesso tempo preoccupa che si confermino di gran lunga i migliori rossi da Aglianico di sempre, e tra le bottiglie più autorevoli prodotte in Italia. Non esiste, lo ribadisco, alcun Taurasi degli ultimi 25 anni che possa rivaleggiare con loro ad armi pari per trama, complessità, tridimensionalità di beva. Eventuali sfidanti vanno semmai cercati tra le decine di grandi riuscite proposte dalla Mastroberardino nel secondo dopoguerra, molte delle quali ancora reperibili in perfetta forma, se ben conservate. Come la Riserva 1961 che ha completato la prima batteria: altra bottiglia spettacolare, di strepitosa vitalità, commovente.
Non è questa la sede per ragionare nuovamente sulle dinamiche storiche, viticole ed interpretative legate all’aglianico irpino, ma in occasioni del genere è inevitabile chiedersi se possiamo chiedere ai vini di oggi la medesima resistenza temporale e maestosità evolutiva. Né ci aiuta più di tanto a sciogliere i dubbi l’analisi paziente di dati che consideriamo in qualche modo attendibili sul piano scientifico. E’ oggettivo che quelle gloriose Riserve siano state generate in un contesto agronomico e tecnologico non paragonabile a quello odierno, non fosse altro per le distanze tra i luoghi di raccolta delle uve e quelli di trasformazione. Così come sono documentati i miglioramenti nella gestione delle fermentazioni e degli affinamenti, oppure le progressive rimodulazioni di valori analitici maggiormente in linea con quelli codificati come “ideali” per un vino da invecchiamento, ma approcciabile anche in gioventù. E’ altrettanto pacifico, si può solo prenderne atto, che quei Taurasi sono stati forgiati da una viticoltura che non esiste più, da raggiere cariche, da cloni in buona parte abbandonati in favore di quelli propagati in vivaio, da opzioni di cantina oggi considerate obsolete. A differenza di altri, una risposta sicura e definitiva sulla questione non ce l’ho, e posso solo ringraziare persone come il Prof Bellelli per ogni viaggio spazio-temporale che capolavori come questi riescono ad innescare, specialmente se in buona compagnia.
 

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