
L’ottimista che alberga abusivamente in me pensa che siamo finalmente pronti per chiudere uno dei tanti triangoli disseminati lungo la strada del viaggiatore enoico.
Vitigno(i), suolo-clima, uomo-donna: a furia di scappellotti abbiamo imparato per bene la lezione francese sull’indissolubilità una e trina incarnata nel concetto di terroir. Non ci resta che fare il passo successivo, esplorando gli strumenti più efficaci per costruire una vera rete informativa, dove il particolare è connesso al globale e ci si sforza di comprendere (e raccontare) come un distretto, un cru, un interprete si rapporti a tutti gli altri. Ed è di nuovo una geometria tripartita a fornire la chiave sintetica: intenzione- adattamento-interpretazione, troppe volte ci dimentichiamo che dietro ogni bottiglia c’è una sequenza inestricabile di bivi e scelte, il cui approdo è destinato all’occupazione di una casella ben precisa, e solo quella. In una parola: stile.
Non che non se ne parli, ma a mio parere il più delle volte lo si fa in modo, se non sbagliato, quantomeno poco utile alla reciproca condivisione. Provo a spiegarmi. C’è sicuramente grande attenzione sulle varie opzioni agronomiche ed enologiche adottate dalle aziende, ma non vedo altrettanto impegno nella proposta di mappe stilistiche organizzate “a valle”. Come se la descrizione organolettica, per quanto accurata o innovativa, scolastica o letteraria, fosse di per sé sufficiente a consigliare intermediari e bevitori finali. Sia chiaro, c’è una forte dose di autocritica nella riflessione: nel mio percorso enoico conoscitivo e professionale mi rendo conto di aver investito moltissime energie per approfondire tutta una serie di fattori collocati decisamente “a monte” della piramide produttiva. Leggi raccolta ed elaborazione di molti dati relativi alle specifiche territoriali, geologiche, meteorologiche, millesimali, solo sporadicamente completata da una sintesi realmente efficace per dialogare con appassionati poco interessati a questi aspetti o maggiormente in difficoltà nel maneggiare un certo tipo di informazioni, anche solo per lontananza geografica.
Intendiamoci, resto straconvinto dell’importanza di un metodo documentale di stampo “masnaghettiano”, tanto per capirci, perché è in larga misura grazie ad esso che le zone e i vigneron più prestigiosi di Francia hanno costruito il loro enorme vantaggio competitivo sui mercati mondiali. Un lavoro di archiviazione e classificazione che la vitienologia transalpina ha avviato con qualche secolo di anticipo rispetto a noi, e si rivela oggi decisivo per supportare le ambizioni di bottiglie vissute in ogni angolo del globo come miti manifatturieri, ancor prima che come liquidi ingurgitabili. Salvo rarissime eccezioni, in Italia questa sistematizzazione informativa è ancora agli inizi e i suoi effetti virtuosi potranno manifestarsi a pieno solo nel lungo periodo. A maggior ragione se consideriamo la mole di nomi, località, vitigni che si incontrano esplorando i vari distretti del Bel Paese. Complicata da memorizzare e metabolizzare perfino per noi autoctoni in molte occasioni, figuriamoci per chi ci osserva dall’altra parte degli oceani.
Ecco perché servirebbe a mio avviso uno sviluppo impostato su una doppia direttrice, per molti versi parallela e complementare. Da una parte proseguendo, anzi intensificando, i processi di mappatura, approfondimento e documentazione nei territori. Dall’altra recuperando una chiave comunicativa maggiormente orientata alla divulgazione, intesa nel senso migliore del termine. Che non ha nulla a che fare con le banalizzazioni derisorie talvolta veicolate dagli stessi media di settore, erroneamente convintisi del fatto che “la ggente” valuti solo il mi piace-non mi piace e che tutto il resto siano faccende per eno-nerd.
Quello che sto cercando di dire, restando sul vissuto concreto, è che quando parlo di Fiano irpino so quanto sia importante soffermarsi – ad esempio – sulle differenze sostanziali che esistono tra le zone di Lapio e Montefredane, Candida e Summonte, con tutto ciò che ne consegue per quel che riguarda terreni, altitudini, esposizioni, epoche di maturazioni, declinazioni organolettiche e chi più ne ha più ne metta. Ma so anche che, almeno in questa fase di costruzione, avrei molte più chance di farmi capire dall’appassionato norvegese o brasiliano se gli indicassi delle associazioni credibili con tipologie a lui più chiare e familiari. Sono sicuro che in un futuro non così lontano basterà pronunciare “Arianiello” * o “Vadiaperti” ** per evocare nel lettore-consumatore una precisa collocazione geografica, varietale, espressiva e perfino commerciale. Ma nel frattempo mi possono tornare utili eccome riferimenti stilistici trasversali, senza necessariamente cadere nel provincialismo: per la serie queste sono le opzioni più adatte a te, se cerchi un Fiano di indole “germanica”, oppure tieni in considerazione quest’altro gruppo se il tuo bianco ideale lo incontri preferibilmente in Borgogna o in Loira, e così via.
Naturalmente un approccio di questo tipo porta con sé inevitabili generalizzazioni, così come è evidente che il deragliamento folkloristico è dietro l’angolo se manca una reale conoscenza del vino internazionale. Ma uno sforzo in questa direzione sarebbe salutare sotto molti punti di vista: dichiarando in maniera puntuale gli ambiti stilistici presi di volta in volta in considerazione, si comprenderebbero molto meglio di quanto accade oggi le disparità di giudizi e di gerarchie segnalate dai vari gruppi di critica ed opinione, non solo quelli “istituzionali”. Li si accetterebbe assai più serenamente e diventerebbe decisamente più agevole quel percorso di crescita collettivo che oggi si manifesta come la zavorra in assoluto più pesante (insieme a burocrazia e sistemi di certificazione) dell’enocomparto italico.
Siete ormai abituati alle mie estenuanti ed inutili digressioni, per cui nemmeno provo più a scusarmi se l’ho presa un tantinello alla larga prima di arrivare alla bottiglia che l’ha innescata. Parlo del Fiano di Avellino 2012 di Guido Marsella, recentemente testato con calma a quasi due anni dal fugace assaggio da vasca. In circostanze normali comincerei con la solita introduzione sulle macro-aree irpine, il quadrante nord-occidentale che si sviluppa attorno al monte Partenio, i terreni poveri dominati dalla roccia dolomitica, le altitudini di Summonte che in più punti superano quota 600 metri, eccetera eccetera. Ma seguendo il filo del precedente ragionamento, mi rendo conto che questi dati direbbero molto poco al Paolo di Shangai o San Francisco. Anche e soprattutto perché sarebbe un quadro incompleto senza richiamare, appunto, le intenzioni del suo artefice: i diradamenti, le sfogliature, le tempistiche vendemmiali e di affinamento, decisive nell’economia espressiva del vino almeno quanto le premesse pedologiche.
Potrebbe forse risultare maggiormente utile una lettura più “orizzontale”, costantemente delineatasi nella mia testa nelle varie occasioni di confronto con questo vino, in degustazione o a tavola. Forzando ma non troppo, direi che quello di Marsella è probabilmente il Fiano più “rodanesco” del comprensorio irpino. Un tocco di sud che irradia lo scenario appenninico, manifestandosi nel frutto prepotente e solare, le canditure agrumate, il tripudio di anice ed erbe mediterranee, un doppio architrave minerale, quasi contraddittorio, di stampo affumicato e lacustre, le suggestioni eteree di trementina e cereali distillati. Ma meridionale soprattutto nel sorso, regolarmente tra i più intensi, grassi e strutturati del panorama avellinese, sviluppato tanto in larghezza quanto in verticale. Da questo punto di vista la 2012 si configura come una versione paradigmatica, ritmata con forza dalla rigogliosa sapidità, ma non certo sguarnita nello scheletro citrino, semmai un po’ asciugata nella chiusura alcolica, come ci si aspetta in un millesimo caldo seppur atipico analiticamente.
Non è lo stile di Fiano che solitamente prediligo, anche per un tipo di evoluzione meno nelle mie corde rispetto ad altri, e a mio avviso non così brillante nel medio-lungo periodo. Ciononostante trovo perfettamente comprensibile l’entusiastico apprezzamento che la creatura di Marsella spesso suscita in una fetta significativa di assaggiatori-bevitori, diversi dei quali lo considerano il numero uno assoluto del distretto. E’ quello che cercavo di sottolineare prima: che senso ha sprecare energie con discussioni del tipo “questo è il migliore, no è quest’altro” senza definire il campo di gioco espressivo? Ecco perché non deve suonare per forza incoerente se da compratore mi oriento abitualmente su altre interpretazioni (ma sulla 2009 di Fiano completi come quello di Marsella non ce n’è, per la mia modesta opinione) e da “critico” lo propongo nella top parade della denominazione. Come ad esempio nel Focus pubblicato sul numero 53 della newsletter di Enogea *, dove la cantina di Summonte è una delle sei aziende valutate con tre stelle insieme a Colli di Lapio, Rocca del Principe, Villa Diamante, Pietracupa e Picariello.
Intorno ai 20 euro in enoteca.
Via Marroni, 1 – Summonte (AV) – www.guidomarsella.com
Distribuito da Cuzziol
* il toponimo più conosciuto e reputato sul versante nord della collina di Lapio
** storica contrada del comune di Montefredane, al confine con il territorio di Prata Principato Ultra (area Greco di Tufo Docg)
Sottoscrivo!
Può piacere o meno lo stile di Marsella e di chi lo supporta nella produzione di questo Fiano di Summonte, come anche l’evoluzione nel tempo della sua creatura, decisamente caratterizzata da un’ossidazione grassa piuttosto che minerale, ma non si può prescindere dal confronto con i suoi millesimi nel panorama irpino come Fiano di Avellino paradigmatico per la tipologia.