Il bello di un blog, almeno per come la vedo io, è che non devi dare per forza risposte ma puoi anche fare riflessioni parziali, avanzare proposte e mettere sul piatto vere e proprie domande.
Il ragionamento di giornata non ha alcuna pretesa esaustiva, metto subito le mani avanti, ma è figlio di tante chiacchiere che ho trovato assai stimolanti intorno alla grenache: uno degli interpreti più autorevoli del fronte sudista, o meglio mediterraneo, del vino Europeo.
Un passo indietro. Pare proprio che la grenache arrivi della Spagna, dove viene chiamata garnacha; fu sotto il regno d’Aragona che la varietà cominciò a viaggiare verso la Catalogna, la Sardegna e il sud della Francia.
Non serve ricordare quanto il Roussillon sia legato alla grenache, tanto nella sua forma a bacca nera, bianca e grigia, così come il Languedoc e soprattutto il Rodano meridionale, dove domina l’uvaggio del celebre Châteauneuf-du-Pape. E ancora meno è da sottolineare l’importanza della varietà in Sardegna, dove diventa cannonau.
E’ proprio il viaggio della grenache in Italia che ha più volte solleticato la mia curiosità. Potrebbero essere stati i pastori sardi, in migrazione verso il continente, ad aver portato quest’uva sulla costa toscana (oppure arriva dalla Liguria, dove la chiamano granaccia?), anche se in Maremma gli anziani parlano di uva Spagna o tinto di Spagna, identificandola con l’alicante (non quello buscè, però, nome che ha generato non poca confusione).
Cito in zona due esempi che conosco. Giampaolo Paglia di Poggioargentiera* tiene in grande considerazione questo vitigno che, non a caso, entra nell’uvaggio del suo Morellino di Scansano Capatosta. Non lontano, la cantina Bruni* ha impiantato da qualche anno una vigna di alicante. Il primo assaggio del vino che ne deriva mi è sembrato interessantissimo.
Dalle mie parti la grenache diventa gamay del Trasimeno (qui la confusione nel nome si fa grande, ma buoni risultati arrivano dalle due versioni di Divina Villa della cooperativa Duca della Corgna). La mia convinzione è che, proprio dall’Umbria, la varietà sia finita sulla sponda adriatica (grazie ai pastori che attraversano la Valnerina?), anche se bisognerebbe indagare meglio i movimenti friuliani berici intorno al tocai rosso.
Comunque, che la grenache o roba del genere sia arrivata nel sud delle Marche è fuori discussione. Tanto per arricchire il ventaglio dei nomi, i contadini del piceno la chiamano bordò (o burdò).
Oggi un manipolo di vignaioli della zona, Marco Casolanetti su tutti, ha ricominciato a prestare notevole attenzione a questo vitigno e a farnci dei vini assai buoni. Il Kupra di Oasi degli Angeli* è un fuoriclasse, tanto nel bicchiere quanto nel prezzo, ma intorno a lui sono nate etichette che promettono di dare un futuro luminoso alla tipologia.
Di recente mi è capitato sotto il naso il Cinabro de Le Caniette*, aziendina che certifica Bio i suoi vini e realizza questo rosso da 100% uve bordò, provenienti da una selezione di viti centenarie. L’ho trovato buonissimo: solare e speziato quanto gustoso, profondo e minerale.
L’indagine continua, così come la voglia di un appuntamento che metta insieme alcune grandi interpretazioni di Grenache del Mediterraneo. Chi mi aiuta?
PS: su questo tema, interessante la degustazione organizzata da Spaghetti Junction