Mi ero innamorata di un uomo che era innamorato del peperoncino. Non sono mai stata portata per i ménage a trois, ma quando scopri la persona in cui perdersi vale tutto.
E allora mi sono fatta amica il peperoncino.
Questo uomo mi avrebbe certamente protetta dalle brutture del mondo, vista la sua somiglianza con Fred Flinstone e la medesima indole buona; e poi, all’inizio, credevo che l’amore viscerale per questa spezia fosse un retaggio dei suoi trascorsi in Asia.
Per lui ho cucinato meravigliosi risotti, sfoggiando il sapere trasmesso da mia mamma, meneghina DOC, che mi ha allevata ad amore e riso giallo con l’oss buss.
I miei erano risotti che trasudavano zafferano e dedizione amorevole, puntualmente ricoperta da grandi spolverate di peperoncino. Che tempra, che sperimentatore! Pensavo turbata da cosa potesse capire dei miei piatti, di me e della vita se il peperoncino – usato in quelle quantità – anestetizzava ogni sapore rendendo evidente solo il minimo comun denominatore: acido o salato o amaro, visto che il dolce veniva fortunatamente risparmiato. E un po’ me ne dispiacevo.
Con il passare del tempo, delle cene improvvisate dopo giornate di lavoro sfiancanti e l’arrivo della quotidianità che sbiadisce le illusioni di promesse percepite all’ inizio dell’amore, nulla era cambiato: nessuna evoluzione nel nostro rapporto, nessun progetto da conquistare, nessuno slancio. Avevo amaramente capito che il peperoncino non serviva ad arricchire il gusto di un palato diverso dal mio. Il peperoncino era necessario a nascondere il vero sapore delle pietanze, come una specie di corazza a protezione delle papille gustative di quell’uomo che tanto mi aveva preso.
Un uomo spaventato dal sapore vero del cibo, così come dalla vita; talmente abituato ad anestetizzarsi il palato e il cuore da rendersi impermeabile alle emozioni, per paura di provare dolore o un sapore disgustoso.
Il peperoncino sul risotto allo zafferano. Era così chiaro.
Io me ne sono accorta in tempo perché sono una grande fanfarona. Una perdigiorno che osserva tutte queste sciocchezze e gli attribuisce un peso specifico esatto, che difficilmente delude i pronostici. Ma se penso alla donna che prima di me ha perso anni ed energie sperando di riuscire a far assaggiare il vero sapore delle cose a quest’uomo, così imponente eppure pavido! Vorrei invitarla a cena per abbracciarla, tirarle le orecchie per aver speso tanto tempo e sentirmi un po’ complice.
Dopo questa parentesi speziata, a digestione finalmente conclusa, mi trovo a frequentare un giovane uomo vegetariano, non troppo convinto di esserlo. Sembra perfetto, e comunque è quello che mi serve ora: niente messaggi da decifrare, gusti semplici e puliti, il privilegio di rieducare una lingua a nuove sensazioni. Chissà se con lui scoprirò sapori nuovi.