Credo che buona parte delle incomprensioni generate dal confronto enoico sia dovuta ad una mera questione di parole. Che spesso non corrispondono nemmeno alle intenzioni di chi le ha proposte in origine.
Non conosco nome e cognome di colui che per la prima volta, trovandosi davanti ad un bicchiere in un bar, abbia sentito formarsi nella sua testa una vignetta del tipo “mmmh, come mi piace questo vino e mi piace perché è equilibrato”. In quel momento di sicuro passava di lì un altro signore, che per puro caso ha guardato in direzione dell’avventore, ha letto la vignetta ed è corso a casa a scriverlo su un libro. “Il vino è buono quando è equilibrato”, intitolò la sua opera, da cui ancora ricava royalty sonanti ogni volta che viene ristampato il manuale del primo livello Ais. Si dà il caso che un suo amico, laureato in architettura ma in quel momento disoccupato (come adesso), una sera era andato a fargli visita per bersi una birra e guardare il posticipo su sky. Diede un’occhiata al manoscritto e rimase quasi folgorato da un’improvvisa ispirazione. Fu lui a disegnare la celeberrima illustrazione del triangolo equilatero che entra perfettamente all’interno del cerchio, esposta al Moma di New York ed evocata ad ogni prima lezione di assaggio per spiegare il rapporto gustativo tra gli elementi di durezza e quelli di morbidezza.
Su questo totem dell’equilibrio si è sviluppato poi tutto il sistema teorico che sta alla base della degustazione e del suo racconto, indipendentemente dal fine ultimo, analitico oppure organolettico, critico o edonistico che sia. All’inizio ti sembra di capire che in ogni bicchiere devi incontrare la corrispondenza perfetta tra cerchio e triangolo perché tu possa attribuirgli senza errori l’etichetta di “grande vino”. Poi stappando in compagnia impàri che non tutti percepiamo morbidezze e durezze allo stesso modo e che a quel totem devi perlomeno affiancare un termine come “soggettivo”. Poi, ancora, pian piano comprendi che non esiste un unico assoluto idealtipo di equilibrio, ma che è un concetto dinamico, che c’è una taratura specifica di partenza addirittura per ogni tipologia, zona, vitigno, stile, annata. Accetti che la figura si sposti in continuazione, che devi tenerne conto se pensi che non ci sia solo un valore di godimento individuale nel vino.
Nonostante tutti questi step di apprendimento, sono convinto che il malinteso sarà sempre dietro l’angolo fino a quando non scoveremo dove si nasconde l’uomo del bar per potergli chiedere innanzitutto: “ma tu, signor vignetta, che cosa stavi bevendo quel giorno, ma soprattutto non ti potevi fare i cazzi tua?” E subito dopo: “Ma siamo proprio sicuri che la tua maledetta esclamazione stesse fotografando non la causa ma l’effetto? E cioè che eri tu, grazie a quel quartino, a sentirti finalmente riequilibrato?”
Secondo me, ma magari mi sbaglio, si pensa troppo al rapporto tra triangolo e cerchio, anche quando si abbandonano le tradizionali grammatiche di racconto, anche quando nella condivisione non c’è nemmeno una molecola di obiettivo schedatorio. Ci si sofferma troppo poco, invece, su come quel liquido discorre con la restante parte, oltre a occhi, naso e bocca, dei corpi che si stanno preparando ad accoglierlo. Un’interazione che non può essere disegnata, non solo perché non lo so fare, ma anche perché la computer graphics in quattro dimensioni non è nelle disponibilità di questo blog. Non è più una questione dell’acidità che bilancia lo zucchero, del tannino che si integra nella struttura, ma di bottiglie che nel loro insieme sanno diventare contrappeso per quello che proviamo in quel momento, che sia frutto di un mood, di un particolare periodo, di qualcosa che ci è accaduto quel giorno. Un bicchiere che si trasfigura in coperta calda la sera che la nostra anima è intirizzita da una brutta risposta ricevuta, che si fa brivido pungente quando hai bisogno di una scossa, che aggiunge sale ad una giornata scondita, che ti riporta almeno per un po’ nel passato quando sei troppo preso dal presente, e così via.
C’è una figura geometrica più importante, secondo me, nella quale il triangolo è il vino nella sua unitarietà e il cerchio è il nostro insieme corpo-mente. O viceversa, non fa differenza. In troppe occasioni, ci faccio sempre più caso, lo yin percettivo riconosce il suo yang in un bicchiere che nello schema classico delinea distanze siderali tra spigoli e curve. In certe occasioni non c’è nulla che la nostra bilancia interiore riconosca con tanta forza “equilibrio” come un vino che sarebbe considerato totalmente squilibrato in una mera dimensione organolettica. Così come accade che un bicchiere perfettamente proporzionato nella dinamica dei sapori possa facilmente rivelarsi corpo estraneo, inutile o addirittura dannoso in quel preciso attimo che stiamo provando a vivere. E non importa se il vino sia ballerina di prima fila o comparsa mimetizzata sullo sfondo: questo continuo dialogo con le nostre sensazioni più profonde si svolge ugualmente, che lo vogliamo o no. Non possiamo non tenerne conto se davvero l’intenzione è quella di capirci tutti un po’ meglio tra di noi.