E’ una riflessione fin troppo a caldo, per i miei standard, quella che mi ronza nella testa a poco più di una settimana dalla fine del primo capitolo di Campania Stories (vedi qui* e qui*), dedicato ai vini rossi. Sensazioni come spesso accade ambivalenti, per non dire antitetiche, che hanno bisogno di sedimentare con calma ma che ci tengo a condividere, si fa per dire, in tempo reale.
Impressioni dove convivono prima di tutto i pensieri di chi sta collaborando ad un progetto complesso, sviluppato con gli amici di sempre Raffaele Del Franco, Diana Cataldo e Massimo Iannaccone, e vive contemporaneamente i giorni della rassegna come uno dei vari operatori invitati-accreditati. E’ una doppia dimensione per molti versi strana, allo stesso tempo stimolante e destabilizzante, nella quale si rovesciano continuamente i punti di vista e le conclusioni.
Come parte attiva nella predisposizione delle sezioni “editoriali” e degli approfondimenti, ho ancora addosso l’energia – magari un po’ anarchica – con cui tanti dei produttori coinvolti hanno colto lo spirito di un’iniziativa in cui non erano chiamati semplicemente a spedire dei vini da far assaggiare. E’ stato a tratti travolgente l’entusiasmo e il “senso di responsabilità” con cui molti di loro hanno accettato di mettersi in gioco in prima persona per accogliere i giornalisti nei loro territori (a volte in gruppo con altre aziende) e presentare le proprie denominazioni, protagoniste nella manifestazione più delle singole bottiglie. Negli incontri di preparazione emergeva con forza la disabitudine ma anche la voglia di sedersi allo stesso tavolo per costruire dei focus in un’ottica autenticamente condivisa. Non una somma di interventi separati ma una messa a sistema di esperienze, letture, documenti, da proporre ed utilizzare nel tempo come vero e proprio patrimonio collettivo. Un obiettivo che deve fare i conti con una larga serie di difficoltà: le rare occasioni, come detto, che finora hanno in qualche modo obbligato i vigneron della regione a lavorare in gruppo, ma anche e soprattutto la scarsissima disponibilità di dati certificati, archivi, materiali di approfondimento storico-geografico dedicati alla moderna Campania del vino.
Nell’era della rete tutti i giorni ci sono articoli, post, note su social network a testimoniare quanto interesse c’è per la viticoltura campana, in ogni suo aspetto. Migliaia di racconti e recensioni che non riescono tuttavia a compensare completamente la penuria di una produzione cartacea e digitale ancora fortemente sbilanciata su coloni greci e antichi romani, Plinio e Tito Livio, Federico II° e compagnia (in bianco e nero) cantando. Paradossalmente è mille volte più facile ricostruire episodi di due millenni fa, verifica delle fonti e propagazione da copia-incolla a parte, che delineare con chiarezza i contorni degli ultimi 25 anni, quelli in cui si è costituito davvero un distretto collettivo regionale.
Gli stessi Consorzi, dove realmente attivi, segnalano difficoltà nel fornire numeri certi sulle superfici e le produzioni effettive, per non parlare dei ritardi sui lavori di zonazione, mappatura e censimenti varietali, affidati perlopiù alla buona volontà di singoli. L’importante, comunque, è che si parta (o si continui, a seconda dei punti di vista) e il confronto creatosi in queste settimane fa passare in secondo piano la lunghezza fiume del convegno di apertura, dove accanto a momenti dispersivi non sono mancati spunti di grande interesse, originalità e perfino di efficacia comunicativa. Quando i vignaioli, piccoli o grandi che siano, decidono di metterci la faccia, agendo in squadra e non più da solisti, credo sia quasi sempre una buona notizia.
Ottimismo “progettuale” a cui fanno da controcanto considerazioni di segno tendenzialmente opposto, innescate dalla parte più strettamente degustativa della rassegna. Senza girarci troppo attorno, mi rimane una sensazione più vicina alla delusione che all’entusiasmo dopo aver assaggiato, e nella maggior parte dei casi riassaggiato, i circa centodieci rossi presentati dalle oltre settanta aziende campane presenti nelle due tappe di Telese Terme* (BN) e Serino* (AV). E non solo a me, purtroppo, da quel che ho avuto modo di comprendere, ascoltando gli amici e i colleghi con cui normalmente sono più in sintonia.
La straordinaria complessità ed eterogeneità del vigneto campano, quanto a condizioni pedoclimatiche, vitigni, variabili umani e stilistiche, impedisce chiaramente di abbozzare un discorso “unitario”. Eppure sembra esserci un mood, quasi un tratto meta-territoriale, ad avvolgere tutta la Campania in rosso. E’ una sorta di “gabbia”, un freno a mano perennemente inserito su una macchina che non può o non vuole uscire dalla sua fase di collaudo. Un “tutto qui?” che non trova aiuto nemmeno in una serie di “alibi” normalmente invocati in occasioni del genere. Perché nelle due tappe gemelle che si sono date il testimone tra il 6 e l’11 marzo non mancavano più di 4-5 aziende tra quelle prese costantemente a riferimento da operatori e appassionati. Perché la stragrande maggioranza delle etichette disponibili nel tasting sono già in commercio o comunque molto vicine all’uscita sul mercato. Non c’erano nemmeno i famigerati “campioni di botte”, insomma, a rendere necessario un differimento delle letture critiche, né si può imputare gli appunti sollevati ad una percentuale rilevante di vini “troppo giovani”. Anzi, mai come questa volta le aziende campane hanno mostrato di prendere sul serio, per scelta o per necessità, il claim-sottotitolo del progetto Campania Stories: Oltre l’Anteprima. Quindi pochi vini veramente “embrionali”, almeno per l’esperienza di un pubblico specializzato come quello chiamato ad assaggiare, ampiamente superati in numero da cru, selezioni, riserve “in piena forma”, che hanno potuto già godere di un periodo importante di affinamento in bottiglia.
Naturalmente ogni riflessione è da mettere in relazione con le aspettative di partenza: se il massimo che ci si attende è una serie di bottiglie affidabili all’interno di una buona variabilità e riconducibilità territoriale, allora si può anche ritenersi più che soddisfatti. Si ricava tutto un altro effetto, invece, se ci prepariamo a viaggiare attraverso un blocco importante di vini non solo ben eseguiti, ma capaci di appassionare, di raccontare delle storie, di illuminare ai massimi livelli le virtù della diversità, ampelografica, geografica, umana. Il triangolo del terroir non sembra chiudersi che in poche occasioni, insomma, ed è proprio la componente antropica la maggiore indiziata in questa ellissi.
Non si può forse parlare di crisi dei rossi campani, ma “stallo” è un termine che per quanto mi riguarda funziona bene. A maggior ragione se penso agli Aglianico, vero e proprio azionista di maggioranza della produzione rossista regionale, sentiero varietale che unisce l’Alto Casertano al Basso Cilento. Non è un caso, a mio avviso, se gli eno-narratori maggiormente di casa in Campania si sono trovati a condividere vibrazioni positive soprattutto sui Piedirosso (specialmente dei Campi Flegrei) e sull’accoppiata Pallagrello-Casavecchia nelle Colline Caiatine. Anche qui non è certo tutto rose e fiori, ma si intuisce un percorso alla ricerca di modelli espressivi propri, originali, autonomi: specialmente il piedirosso sembra guadagnare velocemente terreno da quando i produttori hanno smesso di immaginarlo come “supervino” (in termini di estratti, tenore alcolico, affinamenti in legno) e hanno cominciato ad assecondarne senza forzature la natura di vino goloso, slanciato, formidabile compagno di tavola.
E’ questo che mi sembra continui a mancare agli Aglianico campani, tra l’altro nel cuore di una fase che ha visto aumentare esponenzialmente le versioni in purezza e arretrare i tagli con piedirosso o altro. Manca la fantasia, la voglia di sperimentare nuove strade pensate per lui e solo per lui, rinunciando almeno in parte a protocolli che hanno funzionato bene altrove, Gironda o Langa non importa. E che funzionano anche qui, sia chiaro, perché le bottiglie di livello certamente ci sono. Il problema è che anche gli appassionati più smaliziati ed attenti finiscono però per percepirle come singole “giocate” più che come punte di un iceberg interessante nella sua interezza. Con relative difficoltà di vendita, specie per le etichette “premium”, che spiegano forse più di tante parole.
Il fatto è che appaiono realmente eccezioni quegli Aglianico che provano a staccarsi, magari deragliando, da un modello per troppi versi “quantitativo-esecutivo”. E’ come se la maggior parte dei produttori non riuscisse a giocarsi la partita se non schierandosi totalmente sulla difensiva, con un catenaccio che neanche Trapattoni dei tempi d’oro. Come se i picchi più polarizzati di questo vitigno così difficile venissero percepiti ancora come fughe da riportare a casa, come limiti da neutralizzare e solo poche volte come umori da compiacere. Il che vuol dire, anche presso i vigneron più coscienziosi, tanti sforzi sulla materia prima e i percorsi di cantina, ma poche domande sul vino che chiuderà il cerchio. Come se davvero bastassero tannini maturi e appropriati valori di zuccheri e acidità, presse efficaci e legni più o meno grandi per mettere la firma sempre e comunque ad un “nebbiolo del sud”.
Un ritardo di consapevolezza stilistica che emerge ancora più chiaramente se isoliamo quello che sta succedendo, o meglio non sta accadendo, nello specifico del distretto di Taurasi. Quello che penso di conoscere meglio, almeno per la vicinanza chilometrica, e quello su cui ho senza dubbio investito la maggior parte del mio tempo in termini di visite, sopralluoghi, studi, approfondimenti. Al punto che non posso fare a meno di chiedermi, non senza un forte senso di autocritica, se sia stato tempo produttivo e soprattutto utile in rapporto alle reali potenzialità e prospettive del comprensorio. Per una denominazione che fatica così tanto a svelare una sua piena identità, mi domando quanto possa contare un lavoro sviluppato sulla documentazione delle memorie vendemmiali e sulle differenze, solo a volte macro, dei sotto-territori. Ogni volta mi dico che prima o poi servirà, ma per il momento è operazione che onestamente rischia di confondere più che di aiutare, alzando ulteriormente l’asticella delle aspettative in un distretto troppo giovane. Paradossalmente la migliore notizia della tappa irpina di Campania Stories è proprio la “freddezza” con cui sono stati accolti i primi assaggi della vendemmia 2009: annata complicata, capricciosa, calda ed umida allo stesso tempo, che si racconta attraverso una lunga serie di vini cupi, asciutti, immaturi, mancanti di ampiezza e profondità. Non sono impazzito: se è vero che in un territorio maturo anche le stagioni più controverse diventano pentagramma per letture di valore, è comunque confortante quando il temperamento dei millesimi si fa sentire in maniera così forte. Nel male, come in questo caso, ma anche nel bene come testimoniano tanti assaggi targati 2008, la cui grandezza si diluisce nelle esecuzioni ma non certo nelle premesse.
Sono ancora convinto, nonostante tutto, che sulle colline taurasine viva il germe del terroir eletto, ma al momento è un’incubazione latente più che un contagio diffuso. Come detto non manca a mio avviso lo spartito ma gli interpreti: salvo eccezioni, i produttori più stimati non assaggiano altro che i loro vini, non hanno mai considerato necessari viaggi bacchici approfonditi in zone di riferimento come Toscana, Piemonte, Borgogna, Bordeaux. Ma soprattutto mostrano un’enorme difficoltà a spiegare, prima di tutto a loro stessi, che tipo di vino avrebbero piacere di firmare, quali caratteri li emozionano, insomma che Taurasi hanno in testa. Il risultato, al di là del fisiologico su e giù legato alle annate, è la sensazione di troppi vini che si assomigliano troppo, pur in presenza di zone, manici, enologi consulenti diversi. Sono proprio questi ultimi, in molti casi, a lamentare una carenza di indicazioni, volontà, auspici dei vignaioli con cui collaborano. Ed è normale in uno scenario di questo tipo che il più delle volte si scelgano protocolli “di sicurezza”, con il prioritario scopo di “portare a casa” una tipologia con tante insidie agronomiche ed enologiche, senza osare, senza prendersi rischi, senza andare oltre una puntuale correttezza tecnica.
Il punto è che con quel nome, che per molti evoca davvero l’idea di un Barolo del Sud, e a quei prezzi di listino (tralasciando quelli reali), il Taurasi non può permettersi il lusso di scendere in campo per lo zero e zero. Specialmente in una fase come questa, nella quale in tutto il Vecchio Continente si beve sempre meno (e sempre meno a tavola) e chi stappa bottiglie non da supermercato cerca prima di tutto magia, imprevedibilità, unicità. Né può essere impostata tutta la comunicazione sull’unica carta per quanto importante della longevità, perché man mano che crescono le possibilità di confrontarsi con orizzontali-retrospettive profonde appare chiaro come la tenuta nel tempo non sia sufficiente a plasmare il grande vino, quello grande davvero. E lo dico prima di tutto al collezionista che è in me, pensando alle oltre 400 bottiglie con la fascetta rosa presenti nella mia cantina (per il 90% post annata 1997): Taurasi che rarissimamente mi viene voglia di stappare e godere nella quotidianità, a cui continuo ad attribuire un valore “didattico” più che di consumo. Ma una denominazione non può reggersi nel lungo periodo solo sull’effetto “monumento-highlander”, specialmente quando viene a mancare una collocazione fidelizzata non certo per volumi australiani, ma per poco più di un milione e mezzo di bottiglie totali.
Il vero “problema” è che il fattore opportunità sempre connesso alla parola crisi appare lontano dall’essere colto: tanti produttori sembrano spaesati, impegnati a farsi domande per molti versi sorpassate dagli sviluppi attuali. Molti di loro sono ancora convinti che l’aglianico e il Taurasi fatichino con le vendite perché troppo spigolosi là dove il grande pubblico vuole vini morbidi, facili, risolti. Non comprendendo che non esiste un unico mercato né un solo concetto di “durezza”. Un 97 di Parker ancora aiuta a sbloccare lo stallo per qualcuno occasionalmente, ma la sostanza del ragionamento nel lungo periodo non cambia: vini e denominazioni che oggi vivono un momento brillante, nonostante la congiuntura economica, non sono certo il paradigma della docilità zuccherina, leggi Langa o Borgogna. E’ piuttosto quella durezza monolitica, statica, combattuta più che rispettata, a lasciare tiepidi e talvolta delusi critici e appassionati che si confrontano con l’universo del Taurasi. Vini che in diversi frangenti appaiono come una somma di componenti assemblati a compartimenti stagni, in un processo che fa perdere di vista il quadro d’insieme. Vini a cui sempre meno si possono imputare lacune “tecniche”: il colore fissato, i tannini tanti ma maturi, strutture piene, acidità “giuste”, estrazioni non forzate, apporti del rovere tendenzialmente accettabili, da ricercare più nelle trame gustative che in caricature aromatiche vanigliate o caffettose. Eppure vini per i quali non scatta la scintilla, che appaiono “zavorrati”, passivi, in attesa di qualcosa come il Godot beckettiano.
Eppure, ed è questo l’aspetto che più mi manda in crisi, un modello forte per il Taurasi, anzi fortissimo, esisteva ed esiste: le vecchie Riserve di Mastroberardino, senza scomodare i mitici ’68 o le 2-3 bottiglie rimaste di ’28 e ’34, erano e sono vini che possono sedersi accanto ai più grandi vini del mondo. Vini assoluti, densi di classe e magia, tridimensionali nella stratificazione aromatica e nella completezza gustativa, veri e propri aglianico al cubo. Più passa il tempo, però, più parlare di quelle bottiglie assomiglia alla stanca riproposizione di un amarcord fine a sé stesso: un film in bianco e nero, anzi, una pellicola senza sonoro proiettata in un multisala. E’ come se gli ultimi vent’anni avessero fatto saltare tutti i ponti con quel patrimonio di memoria e di eccellenza, perfino nel percorso della medesima realtà aziendale che lo custodisce. Non è questione di meglio o peggio: Taurasi “importanti” si sono originati anche in tempi recenti, ci mancherebbe, ma ci vuole uno sforzo immane per immaginarli come discendenti, nipoti, eredi di quelle etichette bianco-avorio. Uno scarto generazionale che si annuncia con tratti somatici completamente diversi, come figli naturali riconducibili ad un’altra etnia, che non puoi riconoscere affidandoti esclusivamente alla fisiognomica. Bisogna scavare e ascoltare, con molta attenzione, per trovare un filo conduttore, per allontanare l’idea che il tuo errore sia di merito e non di metodo, che stai continuando a confrontare mondi non paragonabili. Né è di aiuto più di tanto soffermarsi su una viticoltura che non c’è più, su cloni e biotipi perduti, procedure di lavoro e botti che non esistono più. Chissà come dovevano essere quei vini all’uscita, ripetono in tanti, probabilmente con il gusto di oggi li avremmo trovati imbevibili. Eppure, lo confesso, io la penso esattamente all’opposto: che le Riserve ’68, ad esempio, le avremmo percepite immense fin da subito anche noi cittadini del terzo millennio, perché le stimmate del fuoriclasse un vino le mostra appena nasce, o mai, in un modo o in un altro.
Non è una riflessione particolarmente originale, me ne rendo conto, né valida esclusivamente per l’aglianico irpino e campano. Sono molti altri i territori, italiani e non solo, dove ci si chiede in continuazione se è più quello che abbiamo perso o è guadagnato nel passaggio all’era produttiva contemporanea. Ma a complicare ulteriormente le cose qui, e a renderle allo stesso tempo entusiasmanti, c’è un movimento vorticoso che ti costringe ogni volta a ripartire dal via. Non fai a tempo ad individuare nel fattore umano il nodo cruciale che frena il volo della Campania in rosso, che vieni immediatamente smontato da un’evidenza di segno opposto. Perché gli interpreti a cui sentiamo di poter chiedere di più sono alla fine gli stessi a cui si deve quella che è probabilmente la piattaforma bianchista più in forma del bel paese quanto a livello medio, punte d’eccellenza, carattere, versatilità a tavola, sapore, coerenza territoriale, prospettive evolutive. E non puoi certo uscirtene gridando che sì, in fondo i bianchi sono più facili da produrre, oppure che sul fiano e sul greco, la falanghina e il pallagrello, la coda di volpe e il biancolella quel minus di “visione” può essere compensato dall’identità varietale e dalla precisione tecnica.
C’è quindi un limite “genetico” dietro le fatiche dell’aglianico e del Taurasi? E’ questo ad obbligarci da un decennio a rifugiarci nell’abuso della parola potenzialità? Ma poi, queste potenzialità ci sono davvero o sono solo una proiezione dei nostri desiderata? Come al solito non mi sento minimamente in grado nemmeno di abbozzare una risposta ad una serie così confusa di interrogativi. Però in mezzo a tanti rivoli metto a fuoco un fatto: nonostante tutti gli inciampi, nonostante i ritardi, nonostante le criticità che ci troviamo ogni volta a condividere, c’è una comunità di esperti, appassionati e consumatori che continua a crederci. A sobbarcarsi centinaia, a volte migliaia di chilometri per confrontarsi almeno una volta all’anno con il labirinto taurasino, segnalando un’enorme curiosità, anzi una vera e propria necessità di saperne di più, capire, ascoltare. Confermando una linea di credito che magari non è illimitata o infinita, ma ha ancora piena consistenza e prospettiva, come se davvero sovrintendesse la consapevolezza di un racconto incompleto senza il vitigno simbolo dell’Appennino Meridionale. E questa, forse, è la più importante delle risposte in mezzo a tante domande.