Burocrazia canaglia

E’ uno di quei giorni in cui ce l’ho col mondo e mi metto a rimuginare in maniera scomposta sui massimi sistemi.

Dunque, se non siete su questa lunghezza d’onda, quello sulla vostra mano destra è il mouse…
Via allora: un mio amico ha aperto un bar. Fatto normale ed eccezionale, dipende. E’ giovane (almeno professionalmente su…) ma nonostante questo ha già un sacco di esperienza: ha lavorato a tutti i livelli, in Italia e all’estero, parla bene inglese, conosce abbastanza i vini, sa fare buoni cocktail e il caffè gli riesce particolarmente bene.  In più ha quel qualcosa che lo rende perfetto per questo lavoro.
In tempi come questi ha deciso di investire tutto quel che ha (aveva) in una attività propria. Un bar carino, moderno con personalità, centrato sulla sua figura carismatica e competente dietro il bancone. Un posto che ha ravvivato la socialità di un intero quartiere, restituendo uno spazio allo stesso tempo privato, pubblico ed economico.
Con la bella stagione alle porte, il mio amico barman ha chiesto al Comune (per la cronaca tra quelli, dati alla mano, con il rapporto dipendenti/abitanti più alto del pianeta) il permesso di mettere in uno spazio minuscolo di una piazzetta inutile dei tavolini all’aperto. La risposta? “Certo, nessun problema, ma ci vogliono 7 mesi prima che la pratica sia esaminata e arrivi l’autorizzazione”. Ora, a parte il sadico piacere di vedere quei grigi burocrati incatenati fuori dal bar il prossimo Novembre, in una città notoriamente freddina, davvero non trovo un motivo per stare calmo.
E’ solo un piccolo, insignificante esempio di come la burocrazia si mangi di continuo dei pezzi delle nostre vite. Uno accanto ad altri migliaia, milioni di casi che ingessano un paese moribondo e soffocano sul nascere idee e progetti.
La scorsa settimana parlavo di questi argomenti con dei ristoratori italiani che hanno attività di successo in giro per il mondo. Chi in Lussemburgo, chi in Bulgaria, chi in Inghilterra. Casi di eccellenza e belle storie da raccontare come quella di Riccardo Giacomini del Tentazioni Restaurant di Mill Street a Londra. O de La Locanda di Cinzia Bocchi, “inventrice” col marito di un localino a Gisburn, un’oretta da Manchester, che ha stretto un rapporto intimo con le fattorie della zona e usa ingredienti (spesso bio) del posto per il suo menu italiano.
Le loro considerazioni: “La burocrazia italiana è assurda e funziona alla rovescia, mai e poi mai apriremmo un ristorante nel nostro Paese”. Roba che ti riporta alla mente, riga per riga, il libro di Luigi Furini “Volevo solo vendere la pizza*”.
Ma la burocrazia non si ferma qui, divora possibilità e possibilità tanto che dei posti bellissimi di cui il mondo è innamorato, dal Borough market* di Londra allo Swan Oyster Depot* di San Francisco, passando per altri infiniti esempi di Paesi con leggi igienico-sanitarie evidentemente meno “evolute” delle nostre, in Italia sarebbero praticamente impossibili.
E nel vino? A giudicare dalla sacrosanta crociata* della FIVI (Federazione Italiana dei Vignaioli Indipendenti), giustamente supportata da Slow Food, le cose non sembrano andare meglio…

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