No, non sto iniziando un trattato di metallurgia; né tantomeno un panegirico di presunte “virtù” di Cavalieri e Senatur. E' più che altro il tentativo di fare un pò il punto della situazione in merito all'approccio saporifero/tattile del vino odierno, soprattutto in relazione a quanto accadeva appena una quindicina di anni fa.
Sembrerebbe riduttivo dire “appena” riferendosi ad un periodo di tre lustri: nel mondo moderno rappresentano l'equivalente di un'era geologica, ma nel mondo del vino, 15 anni, sono pur sempre solo 15 vendemmie…
Allora, macchine indietro e salto a piè pari nella seconda metà degli anni '90: la Ferrari rincorreva inutilmente Williams e Benetton, nelle orecchie risuona ancora The Division Bell (una delle poche cose che ha salvato quel decennio musicale) e io mi sbattevo appresso all'esame di Fisica II di Ingegneria Meccanica.
Parole d'ordine: Morbidezza, Piacevolezza e Serbevolezza. Bannati tannini, spigolosità, ruvidezze e tensioni varie.
Il vino ha da essere setoso, rotondo, carezzevole, morbidoso, piacione, popputo, marmellatoso, strapieno di terziari, di essenze di legni, legnetti e legnoni e chi più ne ha più ne metta.
La critica li inneggia, il pubblico li richiede: tempo 5 anni e nasce il mercato dell'omologazione, dove la barrique trasforma il Tavernello in Sassicaia e frasi come “questo vino fa barrique di primo passaggio” sono normalmente accompagnate da abbondante scintillio negli occhi degli stessi produttori.
Oggi le cose, per fortuna, sono piuttosto cambiate (anche se non tutti ancora se ne sono resi conto, certi produttori in primis): la reazione verso l'imperante omologazione e piallatura delle papille gustative e dei recettori olfattivi è stata abbastanza importante, realizzando una vera inversione di 180° verso carattere, peculiarità, tipicità, territorialità, biodiversità e tanti altri bei termini che finiscono con la “tà”.
Didatticamente ci si insegna che il vino, nella sua struttura, si divide in durezze e morbidezze, a seconda della tipologia di impatto tattile e saporifero che hanno sul palato… se quindici anni fa erano le morbidezze a farla da padrone, oggi le durezze si stanno prendendo belle rivincite: ma forse qualcosa in più ancora si può dire. L'acidità rappresenta il nerbo del vino, se vogliamo è quell'ossatura che gli permette di stare in piedi e correre, invece di starsene stravaccato in poltrona a rimpinzarsi di merendine.
Visualmente e descrittivamente viene associata a termini quali: verticale, dinamico, pimpante, vitale, vibrante, tagliente, ficcante, ecc., tutti in qualche modo capaci di trasmettere una certa sensazione di energia. Che sia tartarica, malica o citrica il suo compito è fondamentale: spingere in profondità le sensazioni organolettiche, sostenerne la beva, bilanciare ed integrare la componente alcolica, fornire longevità alla maturazione.
Al palato la sensazione non è solo saporifera ma anche tattile: sensazioni di balsamicità tipo caramella alla menta, reazione dinamica delle mucose del palato, salivazione fluida che lubrifica la bocca, fino ad arrivare alla pseudoastringenza, che a volte finisce per sostenere l'analoga sensazione fornita dai tannini.
Quando la componente è ben integrata nel quadro organolettico probabilmente finisce per essere il componente più prezioso del vino, diventando un vero elemento di equilibrio. Quando se ne va per i fatti suoi, è capace di mettere in crisi tutto l'impianto del vino, se vogliamo anche quello aromatico.
La sapidità è la massima espressione del territorio: è solo da lì che infatti risalgono i sali minerali che animeranno poi il vino. Il termine fa il paio con saporosità, fornendo volume, spessore, sostanza ma anche piacere e desiderio di beva… proprio come un cibo saporito è più appetibile di uno sciapo. La salivazione limacciosa che genera è chiaramente una componente tattile, così come, non di rado, è capace di offrirsi anche a livello aromatico con sentori che tendono verso il minerale. Difficile trovarla fuori posto, essendo, in fondo, una microsensazione, ma sempre fondamentale.
Se l'acidità è lo scheletro i tannini sono muscoli e legamenti; se l'acidità sono i tondini d'acciaio, i tannini sono la colata di cemento nelle casseformi. Gli aggettivi si sprecano nella descrizione delle sensazioni legate ai tannini, probabilmente perché fra le macrosensazioni è tra le più percettibili, sia nei rossi, quanto, ultimamente, in alcuni bianchi. Da verdi a immaturi, da ruvidi a graffianti, e ancora setosi, finissimi, risolti, eleganti, polverosi, sabbiosi, gessosi, legnosi, polimerizzati e … avanti il prossimo!
La sensazione al palato, oltre alla ben nota astringenza dovuta alla riduzione della salivazione, è quella di un supporto spaziale e volumetrico alla struttura del vino, quasi una sorta di intelaiatura a triangoli su cui montare poi una tendostruttura, una mesh poligonale fatta di vertici, spigoli e facce che definiscono la forma di un oggetto poliedrico nella modellazione solida: maggiore è il numero di spigoli e facce, più elegante e fine sarà la sensazione al palato. Un vino senza tannini è tutt'altro che morbido: è flaccido!
Se vogliamo definire il tannino in base al suo opposto, pensiamo a mangiare una gelatina di frutta…
Oltre a sostenere la struttura del vino la componente tannica ne allunga anche la profondità nel tempo, dato che la bocca impiega tempo a reidratarsi, generando quindi un rilascio progressivo delle sensazioni di bocca.
I legni piccoli favoriscono la velocità di polimerizzazione dei tannini, che evolverebbero così verso mesh più articolate e complesse, capaci di definire in maniera più precisa curve sinuose: d'altra parte, il rilascio di quelli che ci hanno portato a considerare “tannini nobili” (gallici) imputabili al legno, oggi non è più graditissima, dati gli evidenti rimandi aromatici a falegnamerie ed affini.
E l'alcool? Si è portati ad annoverarlo fra le morbidezze di un vino, ma se ci si pensa bene, l'alcol è apprezzabile laddove l'acidità e la struttura di un vino lo rendono praticamente impercettibile.
Quando ciò non avviene, la sensazione urticante finisce spesso non solo per rendere il tannino sabbioso, ma per isolare ulteriormente la componente acida dalla trama del vino, rendendola stridente. A tutti gli effetti l'alcol è una morbidezza quando è impercettibile ed integrato; complica la vita e peggiora la percezione delle durezze quando è sopra le righe.
E allora a che si riduce il braccio di ferro tra morbidezze e durezze? Io direi che oggi la misura della morbidezza, o meglio della piacevolezza al palato è data dalla intrinseca qualità saporifero/tattile di ogni singola durezza e dalla loro felice relazione ed integrazione, fermo restante la presenza glicerica che non deve essere coprente, ma di supporto.
Paradossalmente sono le durezze a definire e cesellare la forma e la caratteristica della morbidezza, come la luce definisce le ombre.
Dopo anni alla ricerca dell'ultimo terziario da spremere da ogni singolo legno, io trovo che la vera sfida di oggi sia il lavoro da fare sulle durezze e sulle conseguenti percezioni tattili: un lavoro che richiede maniacale attenzione in vigna, interventi tempestivi, scelta accurata dei terroir più vocati e delle più adatte varietà clonali, ricerca e ancora ricerca, pulizia in cantina, zero aggiunta di miglioratori ed additivi, legni quando servono, ricerca (nel caso quella di prima non fosse sufficiente) tanta bottiglia e tempi congrui per la messa in commercio.
Che poi il quadro olfattivo risulterà semplice, diretto e lineare o variegato, progressivo e policromo sarà il tempo a dirlo, e farà la differenza fra grandi vini… e vini buoni.