L’uomo ha sempre avuto la necessità di raccogliere luce ed energia, dall’aria che respira e dagli atomi che attraversa camminando, per spedirle nella direzione desiderata. Illuminare un luogo, far girare ruote, muovere un oggetto, far sorridere, appagare i sensi.
Gli antichi Egizi, per illuminare il profondo delle piramidi, impiantavano una serie di specchi che, come le sponde di un biliardo, rimbalzavano la luce dall’esterno fino alle zone buie. "Doc", Emmett Brown, nel novembre del 1955, imprigionava un fulmine della potenza di 1.21 gigawatt nel flusso canalizzatore della DeLorean, per permettere a Marty di ritornare indietro nel futuro.
Nei quadri di Caravaggio l’immagine è solo ciò che appare dalla visione: ciò che non si vede non interessa. Un’attenzione particolare, quindi, è sempre riservata alla luce. Le sue immagini sembrano sempre apparizioni dal buio. Le figure appaiono grazie a sprazzi di: una fiaccola, uno spiraglio di finestra aperta, una candela accesa. Sempre una luce catturata altrove per essere rivolta verso: una testa tagliata, una mano sanguinante o un viso contorto dal dolore. Caravaggio, gia! Proprio lui.
Le ultime tre volte che, risorto dalle provincialotte ceneri, mi sono abbandonato ai fasti dell’antica e fascinosa capitale, mi è capitato di fare uno straordinario abbinamento. Quadri di Caravaggio e vino. Lo scopo è stato sempre quello di preservare la bellezza lungo tutta la giornata, senza stabilire quale sia più forte e pimpante.
Trascinarsi lungo le sponde del Tevere sfiorato da Radio Rock, ascoltare vibranti e acide note fino ad ammirare colpi di pennello sulle Sabbie di Sopra il Bosco. Cattiveria e follia, storture sociali e avvicinamenti divini, gole sgozzate e vite di merda. Un cesto di frutta, di cromatica serenità, ci riconcilia con un pezzo del mondo dei sensi. Occhi folgorati, nasi spaccati, lingue biforcute. Stomaci trasandati accoglieranno sempre, nerissimo pallagrello, soffice casavecchia e potente aglianico.
Catturati nelle campagne Casertane ed incanalati sia in brocche di luride bettole che in stilose bottiglie posate su bianche tovaglie appena ritirate dal sole. Berne fino a sfinirsi, fino a farsene scivolare rigoli dagli stretti lati della bocca. La perfezione di un’immagine. L’intelligenza dell’uomo, la precisione di un arciere e la velocità di un cavallo, ad inchiodare le vite di puttane e assasssini alle propie debolezze.
Lungo la sua vita, un uomo acchiappa tutto il possibile da: viaggi, dialoghi, amore, sesso, baci, morsi, amici, visioni, schiaffi e panorami. Tutto fa cumulo l’uno con l’altro nel cervello di chi non getta via mai nulla. Chi è capace di imprigionare forza, per poi farla esplodere in fonte di vita, ha in se il dono della curiosità. Alcune volte la raccolta è difficile e confusa, ma chi lavora sodo una fusione ordinata, prima o poi, riesce a trovarla.
Il piccolo Nanni Copè ha imparato ad appassionarsi, ha sedimentato e analizzato conoscenza, ha lavorato intorno al centro del discorso. Alla fine, ha quadrato il cerchio, rimesso tutto apposto: vigna, mente, terreno, legni, acciaio e cuore. Ha raccolto e riversato tutto in un’ampolla di quarzo colmata e tappata, per conservare la luce sospesa nell’aria e l’energia del proprio, cinico, animo.