Non sono un appassionato di “tradizione”, almeno nel senso reazionario e bigotto del termine, anticamera dell’accettazione supina di qualunque nefandezza passi il potere.
Però se per tradizione si intende la stratificazione storica di un percorso condiviso, la creazione di un sentire comune e di una memoria collettiva che indica la rotta, allora le cose cambiano e parecchio. La pensava così anche il compianto Teobaldo Cappellano, di cui ricordo qui una meravigliosa conversazione (insieme a Beppe Rinaldi e Maria Teresa Mascarello), sul vino e sulla vita, fatta meno di un anno fa. Riflessioni che mi sono tornate in mente ieri davanti ai “Fuochi di San Giorgio”, tra i vigneti Lungarotti a Torgiano, in Umbria. Quella del 23 aprile è un’usanza contadina che pare avere inizio nel Medioevo, forse ancor prima, certamente ancorata ai culti pagani.
Coincide con la festa propiziatrice della primavera, quando si bruciavano e si bruciano in grandi falò notturni i sarmenti delle viti, cioè i residui della potatura, in segno di buon auspicio per il futuro raccolto. A ricordare che il vino vive di tecnica e scienza, ci mancherebbe, ma anche di un incredibile universo simbolico e popolare.