
Facciamola breve per una volta. La “notizia” è l’imminente uscita del Greco di Tufo “G” 2010 di Sabino Loffredo, alias Pietracupa.
Non è il caso dell’uomo che morde il cane, ci mancherebbe, ma una quota di fattore sorpresa rimane, come sanno i tanti amici che hanno avuto modo di assaggiare il vino in questione negli ultimi due anni. Ormai convinti, come i sottoscritti, che non sarebbe mai stato davvero commercializzato, considerando i continui rimandi del Loffredo. «Non è pronto», era la sua risposta automatica a chi gli chiedeva di portarsi qualche bottiglia a casa.
Non è pronto neanche adesso, se è per questo, in particolare se si associa al termine il profilo di un vino maturo ed acquietato. Niente di tutto questo: per molti versi è come se i quasi trenta mesi di affinamento in bottiglia fossero serviti soltanto a certificarne la lentezza evolutiva, la fragorosa energia, la completezza espressiva. Dopo una dozzina di prove e controprove nelle varie fasi, giocando con le temperature e con i riassaggi a 24, 48, 186 ore, ci sembra di poter dire che abbiamo a che fare con un vino fuori dall’ordinario, destinato a rimescolare le gerarchie bianchiste più consolidate.
Prende forma da una vendemmia eccezionale un po’ per tutte le tipologie irpine e campane di prima e seconda epoca, dall’andamento molto diverso rispetto a quelli che avevano ispirato le uniche due precedenti versioni del Greco G, vale a dire 2001 e 2003. Interpretazioni dichiaratamente impostate sulla potenza tattile, ma in ultima analisi non così brillanti nell’evoluzione, anche e soprattutto in rapporto al valore dimostrato da tanti “base” firmati Pietracupa. Un’idea di vino progressivamente rimodulata nel corso del tempo, che Sabino non rinnega ma considera fondamentale nel suo percorso di crescita. Non è un caso, insomma, se sono trascorsi sette anni tra un Greco G e l’altro. Così come è facile immaginare che ci sarà da attendere per il prossimo, se mai ci sarà. Magari un’altra “2010” con la sua estate calda, ma senza eccessi, luminosa ed equilibrata, le sue vertiginose escursioni termiche e la ciliegina sulla torta di un inizio di autunno pressoché perfetto meteorologicamente.
Sono, o meglio erano in partenza, poco più di 3.000 bottiglie, originate da una piccola vigna ubicata sul lato destro della stradina che conduce alla cantina di Pietracupa, che divide Montefredane (area Fiano di Avellino) da Prata Principato Ultra (area Greco di Tufo). E’ regolarmente la prima parcella di Greco vendemmiata dai Loffredo, in qualche occasione addirittura alla fine di settembre, là dove le uve di Santa Paolina raramente vengono raccolte prima del 5-10 di ottobre. Una zona di maturazione precoce per effetto di altitudini contenute (inferiori ai 400 metri) e di suoli fortemente argillosi e pietrosi, del tutto sovrapponibili a quelli che caratterizzano le colline di Montefredane e pochi punti di contatto con le giaciture tipiche di Tufo e dintorni.
In cantina classica vinificazione in bianco e lunga maturazione sur lie in acciaio prima dell’imbottigliamento, effettuato per l’intero lotto nell’estate del 2012. I privati potranno reperirlo tra i 70 e gli 80 euro, una fascia di prezzo che nessuno aveva osato finora per un bianco del sud, e men che meno per un Greco di Tufo. Tanto, se pensiamo a magnifiche bottiglie come il Vigna Cicogna di Gabriella Ferrara, il Tornante di Traerte-Vadiaperti o lo stesso Greco “base” di Pietracupa, che costano 4-5 volte meno. Perfino poco, invece, se facciamo mente locale sui prezzi finali di tanti bianchi d’Oltralpe, Côte de Beaune in primis.
Perché il Greco G 2010 parla la stessa lingua dei più emozionanti bianchi europei. Un vino semplicemente ipnotico, pluridimensionale, stupefacente senza bisogno di effetti speciali. Il Greco più “fianeggiante” mai sentito – ad oggi – per florealità balsamica e forza agrumata, con uno scheletro verticale da grande Mosella e la presenza scenica di un Borgogna di prima fascia. Eppure irpino fino al midollo per concretezza strutturale e nerbo minerale: una vera e propria rapsodia, che gioca con gli archi e le percussioni, l’armonia formale e l’improvvisazione sincopata di una deviazione in levare. Ogni goccia è intrisa di classe e complessità, ma è soprattutto la naturalezza di beva ad incantare, nonostante la tempra ancora del tutto giovanile.
Vale la pena di scaraffarlo e servirlo quasi a temperatura da pinot nero, meglio a 14 che a 12 gradi, tirando fuori almeno per una volta dalla credenza quei bicchieri grandi quanto un decanter che non avete mai usato.