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Tradizioni e scaramanzie | La bevuta pre-vendemmia 2011

Ogni anno, il 2 novembre, ce l’usanza per i defunti andare al cimitero, ognuno l’adda fa chesta crianza, ognuno adda tené chistu pensiero“. Don Antonio aveva ragione: le tradizioni vanno sempre rispettate e allora anche quest’anno ci siamo ritrovati dal mitico Alfredo per la consueta stappata insensata pre-vendemmia.

Un’occasione per riannodare i fili dopo l’estate e testare lo stato di forma di alcune bottiglie a loro modo significative, con un occhio alla scaramanzia da raccolta imminente. Come al solito avevo preparato e servito alla cieca delle mini-batterie omogenee, senza dare alcuna indicazione sulle zone o le annate, ma c’è voluto meno di mezzo secondo perché quei zozzoni dei miei amici capissero da che parti eravamo.

Ecco allora il resoconto a puntate, sintatticamente grezzo, dei vari match race: molte conferme e qualche punto interrogativo irrisolto, cominciando dalla prima batteria della serata.
Prima batteria: Lapio Duemila(L)otto
Sfida a due tra i più conosciuti ed apprezzati interpreti del fiano di Lapio, il comune più vitato della denominazione con i suoi circa 120 ettari, terroir storico per la varietà irpina e sottozona piuttosto riconoscibile per caratteri aromatici e strutturali. Da una parte quello di Clelia Romano – Colli di Lapio (azienda nata nel 1994 dopo una lunga storia di conferitori), dall’altra Rocca del Principe di Ercole Zarrella e Aurelia Fabrizio (stesso percorso, prima annata 2004).
Campo di battaglia la vendemmia 2008, sicuramente tra le migliori degli ultimi anni per i bianchi campani in generale e in particolare per quelli irpini, con punte strepitose proprio sui fiano di Lapio e Montefredane, senza dimenticare i Greco di Santa Paolina e Montefusco, oltre che diversi cru della Costa d’Amalfi. Aspettative elevate, dunque, per due vini che ricordavamo già molto molto molto buoni, con qualche piccolo tarlo su quello che è stato il Bianco dell’Anno nell’edizione 2010 di Vini d’Italia. Nei mesi successivi alla proclamazione, infatti, si è molto discusso sul forum di Gambero Rosso dell’opportunità di questo premio, con segnalazioni di bottiglie deludenti, di troppi lotti troppo diversi, senza però riuscire a venirne a capo razionalmente.
Il nostro riassaggio (lotto 34409) ci parla di un vino ancora molto giovane, estremamente serio, compresso al naso, senz’altro più leggibile e autorevole nel sorso di pregevole presenza salina, non enorme per spalla e martellamento acido ma estremamente solido e continuo. Continuo a pensare che il “problema”, al di là della variabilità purtroppo da mettere nel conto con le aziende che non riescono a fare massa unica di imbottigliamento per motivi di spazio, è legato in buona misura alle attese generate da un riconoscimento così forte. Perché il Fiano di Clelia, non solo nel 2008, non ha certo il fisique du role del bianco “importante”: non è quasi mai un campione di materia alla Marsella, per capirci, né di personalità minerale-affumicata alla Picariello o alla Villa Diamante, né di violenza acida alla Vadiaperti o Pietracupa, ed è piuttosto un “finto semplice” e un “falso magro” che sa però giocarsi sempre il match ad alti livelli con la forza e l’agilità dei migliori pesi medi, oltre che con la sua inconfondibile marca aromatica.
In tutta onestà, da una parte questo riassaggio mi conforta perché lo conferma (non solo per me) come uno dei migliori bianchi irpini dell’ultimo lustro, dall’altra non posso fare a meno di avvertire comunque azzardato quel titolo di due anni fa. A Christophe Roumier piacque molto, ma se mi metto nei panni ad esempio proprio di un francese e prendo alla lettera la targa di “miglior bianco italiano dell’anno”, è probabile che le idee si confondano anziché chiarirsi. Anche perché che ne posso sapere, francese o lettore che sia, del fatto che quell’anno non c’erano bianchi più “completi” o che quelli che c’erano magari erano già stati insigniti di quel riconoscimento? In sintesi: vino da 90 punti, con margini di crescita, ma non un fuoriclasse assoluto e universale.
Quanto a Rocca del Principe, anche qui siamo dalle parti del grande bianco appenninico: subito beccato da 4-4-2 mascherato come Fiano di Lapio, rispetto al cugino di collina è più aperto e più “aromatico”, tra pesca gialla, salvia, maggiorana e quel frutto rosso lamponoso che scappa fuori in continuazione quando si assaggiano alla cieca i vini di Arianiello, Tognano e dintorni. La bocca è solo una conseguenza delle premesse olfattive: più “dolce” di frutto, più avvolgente, sicuramente più espresso ma forse anche un po’ meno complesso e profondo nel finale. Anche qui almeno un paio di lustri davanti. Per me ci sono due punti di differenza, tanto per essere chiari, ma al di là dei numeri sono proprio contento di averne ancora in abbondanza sia dell’uno che dell’altro. (continua…)

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