
«Cerco personale da assumere e non trovo nessuno».
Sintetizzo, ma è più o meno questo il senso di tanti post che incrocio quasi giornalmente sui social, condivisi da operatori impegnati a vario titolo in ho.re.ca. A cui seguono regolarmente fiumi di commenti, del tipo: «i giovani si lamentano che non c’è lavoro, ma poi non hanno voglia di impegnarsi e sacrificarsi».
A quel punto devo mordermi le mani. So già che non verrei capito se dicessi che mi pare il peggior modo possibile di affrontare la questione. In primo luogo perché dà per scontato un “sì” alla domanda di fondo: in periodi di crisi, o percepiti come tali, le persone devono prendere in considerazione qualsiasi occupazione, pur di averne una? Ma soprattutto perché tale visione finisce solo con l’alimentare il corto circuito alla base della lamentata penuria di offerta per certi impieghi.
Non è come andare in miniera o raccogliere pomodori il 15 agosto in Puglia a due euro l’ora. E sono lavori che può fare chiunque, se in buona salute fisica. Sembrerebbero notazioni sensate, il sottotesto è invece aberrante: guarda chi sta peggio di te e lascia perdere predisposizioni o ambizioni. Là fuori ce ne sono altri dieci pronti a subentrare al posto tuo, se non ce la fai. Tanti, come detto, mollano dopo poco. Però no, il rimpiazzo non è poi così facile o veloce.
Dinamiche che valgono ovviamente per molti comparti nell’era del capitalismo globale, ma si manifestano in modo più evidente nel mare magnum dei servizi ricettivi. Dove le imprese hanno fisiologicamente bisogno in primis di collaboratori efficienti e flessibili: in rapporto ai turni di lavoro, solo in parte definibili a priori, ma anche e soprattutto alle mansioni da svolgere.
Pensiamo per esempio a come è cambiata in questi anni la figura del cameriere. Da quel dì non è più un semplice “porta piatti”, ma gli si richiedono competenze da magazziniere, informatico, organizzatore di eventi, venditore, e così via. Operaio da catena di montaggio e al contempo manager con responsabilità gestionali. In tanti, però, lo scoprono solo sul campo.
Un vero e proprio circolo vizioso, più sistemico che congiunturale. La crisi economica ha indubbiamente colpito duro le filiere del turismo e dell’ospitalità a tutto tondo. E’ altrettanto vero, tuttavia, che poco o nulla è stato fatto – anche in periodi di vacche grasse – per avvicinare le esigenze di domanda e offerta professionale in questi settori. Chi deve far quadrare i conti non può certo investire a cuor leggero su personale in buona misura da formare e che quasi certamente considera quell’esperienza lavorativa come provvisoria. Ma non si può dare torto nemmeno al giovane catapultato in un contesto molto diverso da quello immaginato, e quindi subito portato a chiedersi se ne vale la pena.
Per esperienze dirette, vissute su entrambi i lati della barricata, posso dire che hanno un po’ tutti ragione, se la guardiamo in termini puramente economici. Il dipendente costa spesso all’imprenditore più di quanto possa permettersi. E viceversa il collaboratore si percepisce legittimamente sottopagato e talvolta sfruttato, alla luce di impegni contrattuali nella pratica poco più che virtuali. E’ evidente che il giochino non sta in piedi, se guadagni e stipendi raramente soddisfano le aspettative dei vari attori in campo, giuste o sbagliate che siano.
Là dove non arrivano i soldi come “movente” principale per spingere a puntare su determinate attività, dovrebbero allora manifestarsi altre forme di compensazione. Finanche la famigerata “visibilità”, maneggiata come una specie di moneta sociale a breve termine. Ma sappiamo che non è così: la maggior parte dei lavori funzionali al comparto sono considerati tutt’altro che prestigiosi o ambiti dal grande pubblico. Ne conosco un bel po’, di ragazzi che mi raccontano di voler diventare i Cracco o i Canavacciuolo di domani. Mentre non me ne sovviene uno da cui abbia mai ascoltato: "un giorno sarò il nuovo Simone Pinoli *, o il principe dei potatori di Langa, se non il miglior portiere d’albergo del Mediterraneo".
Sono sinceri, proprietari di locali e manager ho.re.ca, quando dicono che i loro collaboratori ideali sono persone animate primariamente da passione e vocazione, disposte per questo ad operare radicali scelte di vita. L’operaio dell’accoglienza è nomade, specialmente agli inizi. E fondamentalmente lavora quando gli altri si divertono, come medici o infermieri, autisti o addetti alla pubblica sicurezza. Non esistono week end o feste comandate, il riposo lo detta il cliente, e alla lunga è una quotidianità sostenibile solo con un totale supporto familiare e il riconoscimento di una reale prospettiva di crescita. Finanziaria, ma soprattutto professionale.
Molto più facile decidere di cambiare mestiere. Ed è naturale che in diverse attività si debba ricorrere sempre più spesso a manodopera straniera. Effetti delle politiche di immigrazione occidentali, ritagliate con precisione sartoriale sulle esigenze del mercato turbo-liberista, alti tassi di disoccupazione e bassi salari in primis. Ma al contempo processi generati da peculiari distorsioni di stampo culturale, che richiedono interventi e progetti di lungo respiro, a partire dalle istituzioni educative e scolastiche.
Temo invece che si andrà avanti col più classico dialogo tra sordi. L’incursione di Bernardo Iovene a Identità Golose annuncia con ogni probabilità qualche imminente inchiesta di Report sulla ristorazione italiana. Stando ai rumors, si parlerà anche di orari lavorativi, contributi previdenziali, buste paga, voucher e compagnia cantando. Al che scatterà il solito balletto di scandalizzati e normalizzatori, quelli che “siamo un popolo vergognoso e dovrebbero commissariarci” e quelli che “l’Italia è il paese più bello del mondo e non si è mai mangiato così bene come adesso”, con buona pace delle posizioni intermedie.
Va bene, anzi benissimo, andare a guardare quel che accade nelle cucine, o se preferite dietro le quinte di enoteche, agriturismi, bar, alberghi, ville da cerimonia, eccetera. Ma è forse arrivato il momento di provare a capire ancora meglio cosa si muove fuori: nelle famiglie, nelle comunità, nei programmi formativi. Come mai da una parte si grida ad alta voce la centralità strategica dei servizi turistici e ricettivi per un'economia come la nostra. E dall’altra si continua ad identificarli nei fatti come lavori di “serie B”.

Non ne abbiamo mai parlato apertamente, ma so bene quanto sia stato “strano” per i miei genitori vedermi, fresco di laurea, vestito da cameriere un giorno sì e l’altro pure. Lo ricordo come un periodo fisicamente faticoso, ma mentalmente stimolante e allegro, utile ed istruttivo, anche in funzione delle scelte professionali successive. Mai per un solo momento mi sono trovato a pensare che stessi facendo qualcosa di poco coerente con il mio percorso universitario o con le mie aspirazioni. E però lo comprendo il punto di vista di chi, come mio padre, aveva dovuto passare diverse estati della sua giovinezza da addetto di sala nei grandi alberghi di Saint Moritz per pagarsi gli studi. Orgoglioso ma pur sempre trattato da straniero, in terra straniera.
Ecco perché mi indispongono le lagnanze da tastiera. Trovo semplicemente ridicolo ridurre tutto ad una faccenda generazionale di stakanovisti e sfaticati. E men che meno a formule matematiche di costi e benefici. Non se ne esce senza un approccio umanista, nel senso più pieno del termine. A maggior ragione in un’epoca come questa, dove il mercato sembra l’unica entità deputata a decidere quanto vale il nostro tempo, il nostro lavoro, le nostre vite, fortunatamente senza riuscirci fino in fondo.
Complimenti!