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Orval. Amore "indigeno"

Potrei prendere in prestito un vecchia battuta di Totò su uomini e bestie e dire che “più conosco i vini e più amo le birre…”.

Non è così, ovviamente, Bacco continua ad affascinarmi parecchio (anche se in certi casi mi fa incazzare di brutto), però non nego che scriverci sopra tutto il giorno, dopo svariati mesi di assaggi (peraltro non conclusi) mi procura una certa attrazione verso le freschezze di Cerere
Comunque, sarà come sarà (e tra i motivi ci metto anche il repentino abbassamento della temperatura di questi giorni che mi ha permesso di sospendere momentaneamente il traffico di TIR carchi di Augustiner verso casa mia, per qualcosa di più deciso), nelle ultime sere ho visto riacutizzare il vecchio amore per l’Orval.
Birra trappista prodotta dall’omonima Abbazia belga, è figlia di un’accurata scelta di malti e luppoli, ma soprattutto delle particolari colture di lievi indigeni usati che innescano i processi di fermentazione (tre, ultimo dei quali in bottiglia).
Sono questi, mi pare, a caratterizzare maledettamente questa birra, originalissima e diversa dalle altre, distinta proprio da quel suo gusto inconfondibile di lievito acido, che torna in una bocca seria, asciutta, per niente ammiccante, a tratti spigolosa e dal finale amaricante di erbe e radici.
Caratteri orribili, per alcuni, e deliziosi per altri. Inutile dire a quale categoria appartiene l’autore degli inutili scritti che avete di fronte…

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